Kadagv sollevò le spalle. La sua aria di alterigia e di superiorità era insopportabile.
— Sentite — disse Shevek ai due ragazzi più giovani, — andate in cucina a prendere qualche avanzo, e prendete anche una bottiglia, o qualcosa di simile, piena d’acqua. — Si rivolse nuovamente verso Kadagv: — Ti daremo un mucchio di roba, in modo che tu possa rimanere in quel buco finché ti pare.
— Finché pare a voi — lo corresse Kadagv.
— D’accordo. Entra dentro! — La sicurezza ostentata da Kadagv aveva fatto affiorare la vena beffarda, commediante, di Tirin. — Sei un prigioniero. Tu non rimbecchi nessuno, capito? E adesso girati dall’altra parte. Porta le mani alla nuca.
— E per quale motivo?
— Rinunci?
Kadagv lo fissò con aria torva.
— Tu non puoi chiedere il motivo. Perché se lo fai, noi ti possiamo picchiare, e tu devi limitarti a prenderle, e nessuno può venire ad aiutarti. Perché ti possiamo dare calci nelle balle finché vogliamo, e tu non puoi restituircene neppure uno. Perché non sei lìbero. Allora, hai ancora intenzione di andare fino in fondo?
— Certo. Colpiscimi.
Tirin, Shevek e il prigioniero, fermi uno di fronte all’altro, formavano uno strano gruppo di figure immobili: la lampada nel mezzo, e intorno a loro l’oscurità e i massicci muri di fondazione dell’edificio.
Tirin gli rivolse un sorriso arrogante, esagerato. — Non venirmi a insegnare il mio lavoro, tu, bieco profittatore. Zitto, e fila dentro! — Mentre Kadagv si voltava per obbedire, lo spinse nella schiena con il braccio teso, sbattendolo in fondo alla cella. Emise una esclamazione soffocata di sorpresa o di dolore, e si sedette a terra, succhiandosi un dito ammaccato o graffiato. Shevek e Tirin non dicevano nulla. Immobili, col viso privo di espressione, erano immersi nel loro ruolo di guardie. Ormai non stavano più recitando una parte: la parte aveva preso il sopravvento e dominava sulle loro azioni. I ragazzi più giovani tornarono con un po’ di pane di holum, un melone, una bottiglia d’acqua. Al loro arrivo stavano ancora parlando, ma il curioso silenzio della cella si impadronì anche di loro. Cibo e acqua vennero cacciati dentro, la porta venne rizzata e fermata con i cavalletti. Kadagv rimase solo, nel buio. Gli altri si raccolsero attorno alla lampada. — E dove piscia? — bisbigliò Gibesh.
— A letto — rispose Tirin, con chiarezza ironica.
— E se deve andare al cesso? — continuò Gibesh, mettendosi a ridere piano.
— Che c’è, che fa ridere, nel cesso?
— Pensavo… se non vede… nel buio… come fa… — Gibesh non riuscì a terminare la descrizione della buffa scena da lui immaginata. Tutti cominciarono a ridere senza bisogno di spiegazione: risero forte, fino a rimanere senza fiato. Ciascuno di loro era cosciente del fatto che il ragazzo chiuso nella cella poteva udire le loro risa.
Era già passata l’ora in cui le luci del dormitorio dei ragazzi venivano spente, e molti adulti dormivano già, anche se qualche luce era ancora accesa, nei domicili. La strada era vuota. I ragazzi la percorsero disordinatamente, vociando e ridendo tra loro: li rendeva sfrenati il piacere di condividere un segreto, di disturbare gli altri, di sommare una malvagità in cima a un’altra. Destarono una buona metà dei ragazzi del dormitorio mettendosi a giocare ad acchiapparsi per i passaggi e in mezzo ai letti. Nessun adulto interferì; dopo poco, il clamore si spense da solo.
Tirin e Shevek rimasero a sedere a lungo, occupati a bisbigliare tra loro, sul letto di Tirin. Alla fine decisero che Kadagv se l’era voluto e che sarebbe rimasto due intere notti in prigione.
Il loro gruppo si riformò nel pomeriggio, al laboratorio del recupero legno, e il caposquadra chiese dove fosse Kadagv. Shevek lanciò un’occhiata a Tirin. Si sentiva astuto, provava un senso di potenza nell’evitare di rispondere. Ma quando Tirin rispose senza esitazioni che forse si era unito a un altro gruppo per quel giorno, la menzogna sconvolse Shevek. Il senso di una potenza segreta si trasformò d’improvviso in una sensazione di disagio; gli prudevano le gambe, gli bruciavano le orecchie. Quando il caposquadra gli rivolgeva la parola, Shevek sobbalzava per l’allarme, o la paura, o un altro sentimento affine a questi; un sentimento ch’egli non aveva mai provato, simile all’imbarazzo ma assai peggiore: interiore e abietto. Continuò a pensare a Kadagv, anche mentre riempiva di mastice i fori dei chiodi nelle tavolette di compensato, e le levigava con la carta a vetro fino a renderle perfettamente lisce. Ogni volta che guardava nell’interno della propria mente vi scorgeva Kadagv. Era un’esperienza odiosa.
Gibesh, che era rimasto di guardia, si recò da Tirin e Shevek alla fine del pasto serale. Pareva a disagio. — Mi sembra di avere sentito parlare Kadagv, là dentro. Aveva una voce strana.
Pausa. — Lo facciamo uscire — disse Shevek.
Tirin lo guardò. — Su, via, Shevek — disse, — non piagnucolare. Non diventare altruista! Lascia che finisca il suo tempo, concedigli il rispetto di se stesso: arrivare alla fine del periodo stabilito.
— Altruista un corno. Si tratta del rispetto di me stesso — disse Shevek, e si avviò verso il centro di apprendimento. Tirin lo conosceva; non perse a tempo a discutere con lui, ma lo seguì. I due undicenni si accodarono. Strisciando sotto l’edificio, raggiunsero la cella. Shevek sbatté via un cavalletto, Tirin l’altro. La porta della prigione cadde al suolo con un tonfo sordo.
Kadagv era disteso a terra, rannicchiato su un fianco. Si mise a sedere, poi, molto lentamente, si alzò e venne fuori. Stava più curvo del necessario, sotto il soffitto basso, e batté più volte le palpebre alla luce della lampada, ma non pareva diverso da sempre. Il fetore che uscì insieme con lui fu incredibile. Aveva sofferto, per qualche motivo, di diarrea. La cella era tutta lorda, e macchie gialle di materia escrementizia gli sporcavano la camicia. Quando la luce della lampada gliele mostrò, cercò di nasconderle con la mano. Nessuno disse molto.
Una volta strisciati all’esterno dell’edificio, lungo la strada del dormitorio, Kadagv chiese: — Quanto è stato?
— Circa trenta ore, se contiamo le prime quattro.
— Abbastanza lungo — disse Kadagv, senza convinzione.
Dopo averlo accompagnato alle docce perché si ripulisse, Shevek dovette correre alla latrina. Laggiù si piegò su una tazza, e vomitò. I conati non vollero smettere prima di un quarto d’ora. Era tremante ed esausto quando ebbero fine. Si recò nella stanza comune del dormitorio, lesse un po’ di fisica e andò a letto presto. Nessuno dei cinque ragazzi tornò mai più alla prigione sotto il centro di apprendimento. Nessuno di loro parlò mai dell’accaduto, ad eccezione di Gibesh, che una volta se ne vantò con alcuni ragazzi e ragazze più grandi. Ma questi non capirono, ed egli finì col lasciar cadere l’argomento.
La Luna era già alta al di sopra dell’Istituto Regionale Settentrionale per le Scienze Nobili e Materiali. Quattro ragazzi di quindici e sedici anni, seduti sulla cima di una collinetta, in mezzo a macchie contorte di holum cespugliosi, guardavano in basso verso l’Istituto Regionale, e in alto verso la Luna.
— Strano — disse Tirin. — Non ho mai pensato…
Commenti degli altri tre sulla verità di queste parole.
— Non ho mai pensato — riprese Tirin, senza scomporsi, — al fatto che forse ci sono delle persone sedute su una collinetta, lassù, su Urras, che guardano verso Anarres, verso di noi, e dicono: «Guarda, c’è la Luna». La nostra terra è la loro Luna; la nostra Luna è la loro terra.
— Dove starà, dunque, la Verità? — declamò Bedap.
— Nella collina dove ciascuno ha la ventura di sedere — disse Tirin.
Continuarono tutti a fissare il turchese brillante, velato, sospeso su di loro: non era perfettamente rotondo, il giorno aveva passato la pienezza. La calotta polare settentrionale era accecante. — È chiaro, là nel nord — disse Shevek. — C’è sole. E quella sporgenza lassù, di colore marrone, è l’A-Io.