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— Quell'animale era esausto, quando l'abbiamo lasciato libero; può darsi che non sia ancora riuscito a catturare una preda. Quello che è tornato ha portato un carico più leggero, sul passo. Vado a controllare la larghezza di questa parete. Forse l'animale che abbiamo ci potrà portare tutti e tre, per un breve tratto.

Soffiò nel fischietto, e il grifone grigio, con quella fedele obbedienza che non mancava di stupire Rocannon in bestie così grandi e così carnivore, fece una curva nell'aria e venne a posarsi con grazia sulla sporgenza dove erano fermi i tre uomini. Mogien salì in sella e partì con un grido, e i suoi capelli biondi colsero l'ultimo raggio di sole che riusciva a superare i banchi di nuvole sempre più densi.

Il vento gelido continuava a soffiare. Yahan andò a raggomitolarsi al riparo di una roccia e chiuse gli occhi. Rocannon sedette sulla roccia, con lo sguardo perso nella distanza, ai cui estremi confini si poteva scorgere lo splendore del mare. Non osservò l'immenso, vago paesaggio che compariva a tratti fra le nubi mosse dal vento, ma fissava un unico punto a sudest, un solo luogo. Chiuse gli occhi, e ascoltò. E udì.

Era uno strano dono, quello che aveva ricevuto dall'abitante della caverna, il guardiano della sorgente calda, sulla montagna senza nome. Un dono che non avrebbe mai osato chiedere. Laggiù nell'oscurità, accanto alla profonda sorgente calda, gli era stata insegnata un'arte dei sensi che la sua razza, e gli uomini della Terra, avevano incontrato e studiato in altre razze, ma verso la quale erano ciechi e sordi, salvo qualche breve visione e qualche rara eccezione. Per restare fedele alla propria umanità, Rocannon non aveva voluto accettare la totalità del potere che il guardiano della fonte possedeva e offriva. Egli aveva imparato ad ascoltare la mente di una sola razza, di un solo tipo di creature; una sola voce fra tutte le voci dell'universo: quella dei suoi nemici.

Con Kyo aveva sperimentato una forma elementare di linguaggio mentale, ma non desiderava conoscere la mente dei compagni, se i compagni non potevano leggere la sua. La comprensione doveva essere reciproca, se la fiducia e l'amicizia lo erano.

Ma quando si trattava di coloro che avevano ucciso i suoi amici e che avevano spezzato il vincolo della pace, egli era disposto a spiare nelle loro menti, a origliare i loro pensieri. Seduto su una sporgenza di granito, su una montagna senza sentieri, adesso Rocannon ascoltava i pensieri di uomini che si trovavano in edifici circondati da basse colline, migliaia di metri al di sotto della sua altitudine, a cento chilometri di distanza. Chiacchiere confuse, ronzii, mormoni, un remoto agitarsi di sensazioni ed emozioni tempestose.

Non sapeva ancora come distinguere una voce dall'altra, ed era stordito da cento diversi luoghi, cento diverse posizioni: ascoltava come i bambini in fasce, senza capacità di discriminazione. Coloro che nascono con occhi e orecchi devono imparare a vedere e ad ascoltare, e distinguere una faccia in mezzo alle duplici immagini, una per occhio, che gli giungono da un mondo in cui il «sopra» e il «sotto» sono invertiti, a scegliere un significato in mezzo a una confusione di rumori. Il guardiano della fonte aveva un dono di cui Rocannon aveva sentito parlare una sola volta, su un pianeta lontano: quello di dischiudere il senso della telepatia. Aveva insegnato a Rocannon come limitarlo e come dirigerlo, ma Rocannon non aveva avuto il tempo di imparare a usarlo, di fare esercizio.

Rocannon si sentiva girare la testa sotto gli urti dei pensieri estranei, come se mille sconosciuti si fossero affollati nel suo cranio. Ma non gli giungevano parole. Il termine che gli Angyar (i quali però non ne disponevano) usavano per definire quel nuovo senso era «ascoltare con la mente». Ma ciò che Rocannon «ascoltava» non erano le parole, bensì le intenzioni, i desideri, le emozioni, le collocazioni nello spazio e le direzioni sensoriali-mentali di molti uomini diversi; tutto ciò si accalcava e si sovrapponeva nel suo sistema nervoso: terribili ventate di paura e di invidia, soffi di soddisfazione, abissi di sonno, una tormentosa e selvaggia vertigine di mezze comprensioni e mezze sensazioni.

E poi, all'improvviso, emerse dal caos qualcosa di assolutamente chiaro, un contatto più netto di quello di una mano posata sulla sua pelle nuda. Qualcuno stava venendo verso di lui, un uomo che con la mente aveva percepito la mente di Rocannon. Insieme a questa certezza, impressioni minori: velocità, un luogo chiuso, curiosità e paura.

Rocannon aprì gli occhi, fissando innanzi a sé, come se cercasse di scorgere la faccia dell'uomo di cui aveva percepito l'esistenza. Era vicino; Rocannon ne era sicuro: era vicino e si stava avvicinando. Ma si vedeva soltanto la massa di nubi che si addensava. Alcuni fiocchi di neve, piccoli e asciutti, volteggiavano nel vento. Alla sua sinistra giganteggiava la grande massa di roccia che bloccava il loro cammino. Yahan si era messo al suo fianco, e lo guardava con aria terrorizzata. Ma Rocannon non riusciva a parlargli, perché la presenza lontana lo tormentava, e non poteva interrompere il contatto.

— C'è… c'è una nave dell'aria — mormorò con voce roca, come parlando nel sonno. — Laggiù!

Indicò un punto dove non c'era nulla: cielo, nubi.

— Laggiù — ripeté.

Yahan, guardando nuovamente nel punto indicato da Rocannon, gridò. Mogien, sul grifone grigio, si lasciava trasportare dal vento, a una certa distanza dalle rocce; dietro di lui, da un cumulo di nuvole, era comparsa improvvisamente una forma nera che sembrava sospesa nell'aria. Mogien volava senza accorgersi della sua presenza, perché osservava il fianco della montagna, alla ricerca dei compagni: due piccole figure su una sporgenza di roccia, in mezzo a un deserto di rocce e di nubi.

La forma nera divenne più grande, si avvicinò ancora. Le eliche martellavano l'aria vagamente, ma percepì chiaramente le emozioni dell'uomo al suo interno, il contatto senza comprensione di una mente con l'altra, l'intensa paura che diventava sfida.

— Mettiti al riparo — mormorò a Yahan, ma non riuscì a muoversi. L'elicottero saliva ondeggiando, con le pale coperte da brandelli di nubi sfilacciate. Mentre lo vedeva avvicinarsi, Rocannon vedeva anche la scena che si apriva davanti agli occhi del pilota: gli sembrava di essere dentro l'elicottero, alla ricerca di qualcosa di cui ignorava l'identità, e di vedere due piccole figure sul fianco della montagna, di avere paura, paura…

Un lampo, una scossa di dolore bruciante, dolore nella propria carne, insopportabile. Il contatto mentale si spezzò, svanì completamente. Rocannon era di nuovo se stesso, fermo sulla sporgenza di roccia, con la mano destra premuta contro il petto, ansimante, che guardava inerme l'elicottero avvicinarsi sempre più, le pale che giravano con un secco rumore, l'estremità della carlinga, armata di laser, puntata contro di lui.

Dalla destra, dall'abisso di nuvole, giunse come una freccia una bestia grigia alata, montata da un uomo che gridava con una voce simile a un'alta, trionfale risata. Un battitto delle grandi ali grige spinse in avanti destriero e cavaliere, direttamente contro la macchina sospesa nell'aria, a piena velocità, testa in avanti. Ci fu un suono lacerante, come l'inizio di un grande urlo, e poi il cielo rimase vuoto.

I due uomini sulla sporgenza si affacciarono a guardare, attoniti. Dal basso non giunse nessun rumore. Le nubi coprivano l'abisso, vagavano sopra di esso.

— Mogien!

Rocannon gridò forte quel nome. Non ci fu risposta. Ci furono solo dolore, paura e silenzio.

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