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Raho, che con i suoi capelli chiari e la sua pelle color cioccolato era la prova vivente dell'interesse che qualche sua bisnonna doveva avere destato in un nobile Angyar, era più sfacciato e ironico della media, per un plebeo. Mogien non lo rimproverava mai, e dietro la sua sfacciataggine traspariva la massima dedizione al suo Signore. Già vicino all'età di mezzo, chiaramente pensava che il loro viaggio fosse una completa assurdità, ma altrettanto chiaramente non era mai stato sfiorato dall'idea di fare qualcosa d'altro che seguire il suo giovane Signore in qualsiasi pericolo.

Yahan passò le redini a Rocannon e si affrettò a scostarsi dal grifone, che balzò nell'aria come se fosse scagliato da una molla. Per tutta la giornata i grifoni volarono senza risparmiarsi, senza accusare stanchezza, verso i territori di caccia di cui percepivano o fiutavano l'esistenza a sud, e un vento proveniente dal nord accelerò il loro volo. Sotto la barriera delle montagne si potevano scorgere, sempre più scure e sempre più nette, basse colline coperte di foreste. Anche sulla pianura, di tanto in tanto, si scorgeva qualche macchia di alberi, simile a un'isola nel dilagante mare d'erba. Le macchie si fecero sempre più fitte, fino a diventare foreste interrotte da verdi radure. Prima del tramonto presero terra accanto a un piccolo lago coperto di giunchi, tra collinette alberate. In fretta, con molta cautela, i due plebei levarono dalla groppa dei grifoni ogni finimento ed ogni borsa e pacco, fecero un passo indietro e lasciarono libere le bestie. Gli animali si lanciarono verso l'alto ringhiando e battendo le ampie ali, presero tre direzioni diverse, e svanirono.

— Ritorneranno quando saranno sazi — Yahan spiegò a Rocannon, — o quando il Signore Mogien soffierà il suo fischietto muto.

— A volte ritornano con qualche innamorata… bestie non domate, pericolose — aggiunse Raho, per far paura a Rocannon, che era all'oscuro di molti particolari.

Mogien e i due plebei si allontanarono, per dare la caccia ai conigli saltatori o a qualsiasi altro animale che incontrassero; Rocannon estrasse da terra alcuni grossi tuberi di peya e li mise ad arrostire fra le ceneri, dopo averli avvolti nelle loro foglie. Era un esperto nell'arte di arrangiarsi con ciò che si poteva trovare sul posto, e gli piaceva la vita dell'esploratore; quei giorni di grandi voli che duravano dall'alba al tramonto, di perenne fame saziata a metà, di notti passate dormendo sulla nuda terra al freddo del vento di primavera, l'avevano portato in una strana condizione di affinamento dei sensi, rendendolo pronto e aperto ad ogni sensazione e ad ogni impressione.

Alzandosi dal fuoco, vide che Kyo era sceso al laghetto e che adesso era fermo sulla riva: una figura sottile, non più alta delle canne che spuntavano dall'acqua. Il Fian stava fissando le montagne che s'innalzavano come grige torri, a sud, e che raccoglievano intorno alle loro alte cime tutte le nubi e il silenzio del cielo.

Rocannon, avvicinandosi a lui, vide che aveva sulla faccia un'espressione insieme desolata ed esitante: — Olhor, hai di nuovo il gioiello.

— Continuo a cercare di darlo ad altri — disse Rocannon, sorridendo.

— Lassù — proseguì il Fian, — dovrai dare più che oro e pietre… Che cosa darai, Olhor, lassù nel luogo freddo, nel luogo alto, nel luogo grigio? Dal fuoco al ghiaccio…

Rocannon udiva le parole e guardava il Fian, ma non vedeva muoversi le sue labbra. Sentì un brivido che gli correva lungo la schiena; chiuse la propria mente, sfuggendo al contatto di quella strana sensazione che entrava nella sua umanità, nella sua intimità.

Dopo un minuto, Kyo si voltò, calmo e sorridente come sempre, e parlò con il suo solito tono di voce: — Oltre queste basse colline ci sono dei Fiia. Sono al di là della foresta, in vallate verdeggianti. Il mio popolo ama le valli, anche qui ama il sole e le terre basse. Troveremo i loro villaggi tra pochi giorni di volo.

Era una buona notizia, e gli altri la accolsero con gioia, quando Rocannon la riferì.

— Pensavo che non avremmo trovato alcun essere capace di parlare. Una terra così bella, così ricca e così vuota — disse Raho.

Fissando un paio di kilar simili a libellule, che volavano sul lago come ametiste alate, Mogien disse: — Non è stata sempre vuota. La mia gente l'ha attraversata molto tempo fa, negli anni che precedettero la nascita degli eroi, prima che Hendin scagliasse la grande lancia e che Kirfiel morisse sulla Collina di Orren.

«Giungemmo dal sud, a bordo di navi con la testa di drago e nell'Angien trovammo una popolazione selvaggia che si nascondeva nei boschi e nelle grotte marine, una razza dalla faccia bianca. Tu conosci la canzone, Yahan, il Lamento di Orhogien:

Cavalcando il vento.
Camminando sull'erba.
Solcando il mare,
Verso la stella Brehen
Sul sentiero di Lioka…

«Il sentiero di Lioka va da sud a nord. E le battaglie di cui si parla nel canto raccontano di come noi Angyar abbiamo sconfitto i cacciatori selvaggi, gli Olgyior, gli unici della nostra razza che abitassero nell'Angien; infatti apparteniamo a una sola razza, i Liuar.

«Ma il canto non parla di quelle montagne. È un canto molto antico; forse il suo inizio s'è perduto. O forse la mia gente veniva da queste colline. È un ottimo paese: ci sono boschi in cui si può cacciare, colline adatte al pascolo e cime per costruirvi castelli. Eppure, adesso, sembra che non ci viva alcuna razza umana…

Quella sera, Yahan non suonò la sua cetra dalle corde d'argento; nessuno di loro riuscì a dormire tranquillamente, forse perché i grifoni erano lontani e perche sulle colline aleggiava un silenzio di morte, come se nessuna creatura osasse muoversi di notte.

Poiché tutti si lamentavano che l'accampamento vicino al lago era troppo paludoso, l'indomani ripresero il cammino a piedi, procedendo senza fretta e fermandosi sovente per cacciare e raccogliere qualche vegetale. Al tramonto giunsero su una collinetta la cui cima era gibbosa e accidentata, come se l'erba crescesse sulle fondamenta di un edificio crollato. Non rimaneva niente della costruzione, ma riuscirono a individuare la corte di volo di un piccolo castello, sorto in tempi talmente remoti che perfino la leggenda se l'era dimenticato. Si accamparono laggiù, perché era un punto dove i grifoni li avrebbero scorti con facilità, al loro ritorno.

A tarda ora, durante la lunga notte, Rocannon si destò e si rizzò a sedere. Splendeva soltanto la piccola Lioka, e il fuoco era spento. Non avevano predisposto turni di guardia. Mogien era in piedi, a cinque o sei metri di distanza da lui, e non faceva alcuna mossa: alla luce delle stelle era soltanto una forma indistinta, alta.

Rocannon, ancora semiaddormentato, lo osservò, chiedendosi perche il mantello lo facesse sembrare così alto e così stretto di spalle. C'era qualcosa di strano nella sua figura. Le altre volte, il mantello dell'Angya si allargava alle spalle come il tetto di una pagoda, e anche senza mantello Mogien aveva un torace notevolmente ampio. Perché adesso sembrava tanto alto, tanto chino e magro?

La faccia si voltò lentamente verso di lui, e non era la faccia di Mogien.

— Chi è là? — chiese Rocannon, e la sua voce echeggiò nel minaccioso silenzio. Al suo fianco, anche Raho si rizzò a sedere, si guardò attorno, afferrò l'arco e si alzò in piedi. Dietro l'alta figura, qualcosa si mosse leggermente… un'altra sagoma identica alla precedente. Tutt'intorno a loro, in mezzo alle rovine coperte d'erba e illuminate dalle stelle, stavano le alte forme magre e silenziose, pesantemente ammantellate, con la testa china. Accanto al fuoco erano rimasti soltanto Rocannon e Raho.

— Signore Mogien! — gridò Raho.

Non ci fu risposta.

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