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Ged strinse il bastone e lo batté al suolo. — Non può parlare — disse. — Non può parlare! Le parole della Creazione gli sono state sottratte, ed è rimasto come una vipera, come un verme senza lingua, e la sua sapienza è muta. Eppure può guidarci, e noi possiamo seguirlo! — Issatisi sulle spalle i leggeri zaini, si avviarono verso ovest, attraverso le colline, nella direzione in cui si era involato Orm Embar.

Proseguirono per otto miglia o più, senza rallentare quell’andatura svelta e costante. Adesso il mare stava a destra e a sinistra, e loro procedevano su un lungo crinale che finiva col discendere tra canne aride e letti tortuosi di ruscelli verso una spiaggia sabbiosa e curvilinea, color avorio. Era il capo più occidentale di tutte le isole, la fine della terra.

Orm Embar stava acquattato su quella sabbia eburnea, con la testa abbassata come un gatto infuriato e il respiro che gli usciva dalle fauci in sbuffi di fuoco. Un poco più avanti, fra il drago e i lunghi e bassi frangenti del mare, stava una specie di rifugio o di capanna, bianco, come costruito di legno gettato a riva dal mare e sbiancato dal tempo. Ma non c’era legno gettato su quella spiaggia, che non era rivolta verso altre terre. Quando si avvicinarono, Arren vide che quelle pareti malferme erano formate da grandi ossa: ossa di balena, pensò in un primo momento, e poi vide i triangoli bianchi, affilati come coltelli, e comprese che erano ossa di drago.

Giunsero in quel luogo. La luce del sole riflessa dal mare scintillava nelle fenditure tra le ossa. L’architrave della porta era un femore più lungo di un uomo: sopra stava un teschio umano, che fissava con le vuote occhiaie le colline di Selidor.

Si fermarono; e mentre guardavano il teschio un uomo uscì dalla porta. Aveva un’armatura di bronzo dorato e di foggia antica: era lacerata, come da colpi d’ascia, e il fodero ingemmato della spada era vuoto. Il suo volto era severo, con le sopracciglia nere e arcuate e il naso sottile; gli occhi erano scuri, acuti e dolorosi. C’erano ferite sulle sue braccia e sulla gola e sui fianchi: non sanguinavano più, ma erano ferite mortali. Rimase eretto, immobile, a guardarli.

Ged mosse un passo verso di lui. Quasi si somigliavano, così faccia a faccia.

—  Tu sei Erreth-Akbe — disse Ged. L’altro lo fissò con fermezza e annuì, ma non parlò.

—  Perfino tu, perfino tu devi fare il suo volere. — C’era furore, nella voce di Ged. — Oh mio signore, il più valoroso e il migliore di tutti noi, riposa nel tuo onore e nella morte! — Levate le mani, le riabbassò in un gesto solenne, ripetendo le parole che aveva rivolto alle moltitudini dei morti. Le sue mani lasciarono nell’aria, per un momento, un’ampia scia lucente. Quando questa scomparve, l’uomo in armatura non c’era più, e soltanto il sole brillava abbagliante sulla sabbia.

Ged batté col bastone sulla casa d’ossa, e la casa cadde e svanì. Non rimase nulla, tranne una grande costola che spuntava dalla rena.

Il mago si girò verso Orm Embar. — È qui, Orm Embar? È questo, il luogo?

Il drago aprì le fauci ed emise un immane sibilo ansimante.

—  Qui, sull’ultima spiaggia del mondo. Bene! — Poi, impugnando nella mano sinistra il nero bastone di tasso, Ged spalancò le braccia nel gesto dell’invocazione e parlò. Sebbene parlasse nella lingua della Creazione, Arren comprese, finalmente, come devono comprendere tutti coloro che odono quell’invocazione, perché ha potere su tutti: — Ora io ti chiamo qui, mio nemico, davanti ai miei occhi e in persona, e ti lego con la parola che non verrà pronunciata fino alla fine del tempo, e ti comando di venire!

Ma dove avrebbe dovuto pronunciare il nome di colui che chiamava, Ged, disse soltanto: mio nemico.

Seguì un silenzio, come se il suono del mare si fosse dileguato. Ad Arren parve che il sole si offuscasse e si affievolisse, sebbene fosse alto nel cielo sereno. Un’oscurità si stese sulla spiaggia, come se si fossero messi a guardare attraverso un vetro affumicato: direttamente davanti a Ged l’oscurità divenne più intensa, ed era difficile vedere cosa c’era. Era come se non ci fosse nulla, nulla su cui potesse cadere la luce, un’assenza di forma.

E ne uscì un uomo, all’improvviso. Era lo stesso che avevano visto sulla duna, con i capelli neri e le braccia lunghe, alto e snello. Adesso impugnava una lunga verga, o una canna d’acciaio, interamente intarsiata di rune, e la protese verso Ged mentre si girava nella sua direzione. Ma c’era qualcosa di strano nell’espressione dei suoi occhi, come se fossero abbagliati dal sole e non potessero vedere.

—  Io vengo — disse, — di mia libera scelta, e a modo mio. Tu non puoi chiamarmi, arcimago. Non sono un’ombra. Sono vivo. Io solo sono vivo! Tu credi di esserlo, ma stai morendo, morendo. Sai cosa impugno? È il bastone del Mago Grigio, colui che ridusse al silenzio Nereger; il Maestro della mia arte. Ma ora sono io, il Maestro. E ne ho abbastanza di giocare con te. — Con queste parole protese di scatto la lama d’acciaio per toccare Ged, che stava immobile come se non potesse muoversi né parlare. Arren era un passo più indietro, e tutta la sua volontà gli imponeva di muoversi: ma non poteva, non poteva neppure portare la mano sull’elsa della spada, e la voce gli si era arrestata nella gola.

Ma al di sopra di Ged e di Arren, al di sopra delle loro teste, immenso e fiammeggiante, il grande corpo del drago balzò, fremendo, e piombò con violenza sull’altro, così che la lama d’acciaio incantata penetrò in tutta la sua lunghezza nel petto corazzato del drago; ma l’uomo venne travolto dal suo peso, schiacciato e bruciato.

Rialzandosi dalla sabbia, inarcando il dorso e battendo le ali, Orm Embar vomitò sprazzi di fuoco e urlò. Tentò di volare, ma non vi riuscì. Freddo e maligno, il metallo gli era entrato nel cuore. Si accovacciò, e il sangue gli sgorgò a fiotti dalle fauci, nero e velenoso e fumante, e il fuoco si spense nelle sue narici finché divennero simili a fosse di cenere. Appoggiò la grande testa sulla sabbia.

Così morì Orm Embar, dov’era morto il suo progenitore Orm, sulle ossa di Orm sepolte nella sabbia.

Ma dove Orm aveva gettato a terra il suo nemico, giaceva qualcosa di orrendo e raggrinzito, come il corpo di un ragno enorme disseccato nella sua tela. Era stato bruciato dall’alito del drago e schiacciato dalle sue zampe artigliate. Eppure, mentre Arren lo guardava, si mosse. Si trascinò via, un po’ lontano dal drago.

La faccia si levò verso di loro. Non vi rimaneva più ombra di bellezza ma solo la rovina, la vecchiaia sopravvissuta alla vecchiaia. La bocca era incartapecorita. Le occhiaie erano vuote, e lo erano da molto tempo. Così Ged e Arren videro il volto vivo del loro nemico.

Si girò. Le braccia arse e annerite si tesero e vi si addensò una tenebra, la stessa oscurità informe che offuscava la luce del sole. Tra le braccia del Distruttore c’era come un’arcata o una porta, indistinta, senza contorni: e oltre quella non c’erano la pallida sabbia e l’oceano ma un lungo pendio di tenebra che scendeva nel buio.

Là entrò la figura sfracellata e strisciante, e quando passò nella tenebra parve improvvisamente alzarsi e muoversi in fretta: e scomparve.

—  Vieni, Lebannen — disse Ged, posando la mano destra sul braccio del ragazzo: e avanzarono nella terra arida.

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