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Non appariva forte, seduto con le spalle curve sulla cena di pane e di pesce affumicato, con i capelli ingrigiti e strinati dal fuoco, e le mani sottili, e il volto stanco.

Eppure il drago lo temeva.

—  Cosa ti affligge, ragazzo?

Con lui, si poteva dire solo la verità.

—  Mio signore, tu hai pronunciato il tuo nome.

—  Oh, sì. Dimenticavo: non l’avevo mai fatto, prima. Avrai bisogno del mio vero nome, se andremo dove dobbiamo andare. — Sparviero alzò gli occhi verso Arren, masticando. — Pensavi che fossi rimbambito e che me ne andassi in giro a barbugliare il mio nome, come i vecchi stolti che hanno dimenticato il buonsenso e la dignità? Non ancora, ragazzo!

—  No — disse Arren, così confuso che non seppe aggiungere altro. Era stanchissimo: la giornata era stata lunga, e piena di draghi. E la via davanti a lui diventava sempre più tenebrosa.

—  Arren — riprese il mago. — No: Lebannen. Dove stiamo andando, è impossibile nascondersi. Là tutti portano il loro vero nome.

—  I morti non possono soffrire — replicò Arren, tristemente.

—  Non è soltanto là, non solo nella morte, che gli uomini prendono il loro nome. Coloro che possono rimanere feriti di più, i più vulnerabili: coloro che hanno dato amore e non l’hanno ricevuto, pronunciano l’uno il nome dell’altro. Coloro che hanno cuore fedele, i datori di vita… Sei esausto, ragazzo. Sdraiati e dormi. Non c’è nulla da fare, ormai, se non mantenere la rotta per tutta la notte. E domattina vedremo l’ultima isola del mondo.

Nella voce di Sparviero c’era una gentilezza insuperabile. Arren si raggomitolò a prua, e il sonno venne subito a lui. Udì il mago incominciare una nenia sommessa, quasi mormorante, non in hardese ma nelle parole della Creazione: e mentre incominciava finalmente a comprendere e a ricordare il significato di quelle parole, un attimo prima di capirle si addormentò.

In silenzio, il mago ripose il pane e il pesce, controllò le lenze, rimise ordine sulla barca; poi, presa la cima che guidava la vela e sedutosi, suscitò un forte vento magico. Instancabile, la Vistacuta corse veloce verso nord, come una freccia sul mare.

Ged abbassò lo sguardo su Arren. Il volto del ragazzo addormentato era illuminato dall’oro rosso del lungo tramonto, i capelli scomposti erano agitati dal vento. L’aspetto delicato, disinvolto, principesco del ragazzo che si era seduto accanto alla fontana della Grande Casa pochi mesi prima era scomparso: quel volto era più magro e più duro, e molto più forte. Ma non era meno bello.

—  Non ho trovato nessuno da seguire, sulla mia via — disse a voce alta Ged l’arcimago al ragazzo addormentato o al vento vuoto. — Nessun altro che te. E tu devi andare per la tua strada, non per la mia. Eppure il tuo regno sarà in parte mio. Perché io ti ho conosciuto prima. Ti ho conosciuto prima! Mi loderanno per questo, in futuro, più che per quanto ho fatto nell’ambito della magia… Se ci sarà un futuro. Perché prima noi due dobbiamo porci al punto d’equilibrio, al fulcro stesso del mondo. E se io cadrò, tu cadrai, e tutto il resto… Per un poco, per un poco. Nessuna tenebra dura in eterno. E anche allora ci sono le stelle… Oh, ma vorrei vederti incoronato in Havnor, col sole che brilla sulla Torre della Spada e sull’Anello che io e Tenar portammo da Atuan, dalle buie tombe, prima ancora che tu nascessi!

Poi rise e si voltò verso il nord, dicendo a se stesso nella lingua comune: — Un capraio per portare al trono l’erede di Morred! Non imparerò mai?

Dopo, mentre sedeva con la cima nella mano e guardava la gonfia vela tendersi arrossata nell’ultima luce dell’occaso, parlò di nuovo, a bassa voce. — Non vorrei essere a Havnor, né a Roke. È tempo di finirla, col potere. Abbandonare i vecchi giocattoli e andare avanti. È tempo che io ritorni a casa. Vorrei vedere Tenar. Vorrei vedere Ogion, e parlare con lui prima che muoia, nella casa sullo strapiombo di Re Albi. Agogno di camminare sulla montagna, la montagna di Gont, nelle foreste, in autunno, quando le foglie hanno colori vivaci. Non esiste un regno che uguagli le foreste. È tempo che io vi faccia ritorno, in silenzio, e solo. E forse allora imparerei ciò che nessun atto e nessuna arte e nessun potere può insegnarmi, ciò che non ho imparato mai.

Tutto l’occidente sfolgorava in una furia, una gloria rosseggiante, così che il mare appariva cremisi e la vela aveva il colore del sangue; e poi venne quietamente la notte. Per tutta quella notte il ragazzo dormì e l’uomo vegliò, scrutando continuamente davanti a sé nell’oscurità. Non c’erano stelle.

SELIDOR

Destandosi al mattino, Arren vide davanti alla barca, indistinte e basse lungo l’azzurro orizzonte occidentale, le spiagge di Selidor.

Nel palazzo di Berila c’erano vecchie mappe che erano state eseguite ai tempi dei re, quando i mercanti e gli esploratori salpavano dalle Terre Interne e gli stretti erano meglio conosciuti. Una grande mappa del nord e dell’ovest era tracciata in mosaico su due pareti della sala del trono del principe, con l’isola di Enlad in oro e grigio al di sopra del seggio. Arren la vedeva con l’occhio della mente, come l’aveva vista mille volte nella sua infanzia. A nord di Enlad c’era Osskil, e a ovest di questa Ebosskil, e a sud di quest’ultima Semel e Paln. Là finivano le Terre Interne, e non c’era altro che il pallido mosaico verdazzurro del mare vuoto, e qua e là un minuscolo delfino o una balena. Poi, alla fine, dopo l’angolo dove la parete nord incontrava la parete ovest, c’era Narveduen, e più oltre tre isole più piccole. E poi ancora il mare vuoto, all’infinito: fino a quando, al limite della parete e all’estremità della mappa, c’era Selidor: e oltre Selidor non c’era più nulla.

La ricordava chiaramente, con la sua forma ricurva, e una grande baia al centro che si apriva verso est, senza allargarsi molto. Non erano giunti tanto a nord, ma adesso stavano virando verso una cala profonda nel capo più meridionale dell’isola: e là, mentre il sole era ancora basso nella foschia del mattino, sbarcarono.

Così ebbe fine la grande corsa dalle Strade di Balatran all’Isola Occidentale. Il silenzio parve loro strano, quando ebbero tirato in secco la Vistacuta e dopo tanto tempo rimisero piede sulla terraferma.

Ged salì su una duna bassa, incoronata d’erba, con la cresta che sporgeva sul ripido declivio, legata a cornicioni dalle dure radici dell’erba. Quando raggiunse la sommità restò immobile, a guardare verso ovest e verso nord. Arren si fermò accanto alla barca, per calzare le scarpe, che non portava da molti giorni, ed estrasse la spada dalla cassa e la cinse: e questa volta non si chiese se doveva o non doveva farlo. Poi salì sulla duna, accanto a Ged, per guardare quella terra.

Le dune procedevano verso l’interno, basse ed erbose, per circa mezzo miglio; e poi c’erano lagune, fitte di carici e di canne d’acqua salmastra; e più oltre colline basse, giallo-brune e vuote, fino a perdita d’occhio. Selidor era bella e desolata. Non c’era traccia della presenza dell’uomo e delle sue opere. Non si vedevano bestie, e i laghi fitti di giunchi non ospitavano stormi di gabbiani o di oche selvatiche o di altri uccelli.

Tra la duna più esterna e quella successiva c’era una depressione di sabbia pulita, riparata: il sole del mattino splendeva caldo sul pendio occidentale. — Lebannen — disse il mago, che adesso usava il vero nome di Arren, — questa notte non ho potuto dormire, e ora devo farlo. Resta con me, e monta di guardia. — Si sdraiò al sole, perché all’ombra faceva freddo; si coprì gli occhi col braccio, sospirò e si addormentò. Arren gli si sedette accanto. Non vedeva null’altro che i bianchi pendii della depressione, e l’erba delle dune che s’inchinava alla sommità contro l’azzurro nebbioso del cielo, e il giallo sole. Non c’era altro suono che lo smorzato mormorio della risacca; e talvolta il vento, spirando a refoli, smuoveva leggermente le particelle di sabbia con un lieve fruscio.

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