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IL PAZZO

Il pazzo, il Tintore di Lorbanery, stava raggomitolato contro l’albero maestro, con le braccia strette intorno alle ginocchia e la testa china. La massa dei capelli irsuti sembrava nera, nel chiaro di luna. Sparviero si era avvolto in una coperta e si era addormentato a poppa. Nessuno dei due si muoveva. Arren stava seduto a prua: aveva giurato a se stesso di vegliare durante l’intera notte. Se il mago aveva deciso di credere che il passeggero demente non avrebbe aggredito né lui né Arren nel corso della notte, era liberissimo di farlo; ma Arren avrebbe continuato a pensare come voleva, e si sarebbe assunto le proprie responsabilità.

Ma la notte fu lunghissima e molto tranquilla. La luce della luna scendeva immutabile. Rannicchiato accanto all’albero, Sopli russava, con un suono lungo e sommesso. La barca procedeva dolcemente; dolcemente, Arren scivolò nel sonno. Si svegliò con un sussulto, dopo un po’, e vide che la luna era di poco più alta; rinunciò alla decisione di montare di guardia, si assestò più comodamente, e si addormentò.

Sognò ancora, come sembrava che sognasse sempre durante quel viaggio, e all’inizio i sogni furono frammentari ma stranamente dolci e rassicuranti. Al posto dell’albero maestro della Vistacuta cresceva una grande pianta, con i rami arcuati e carichi di foglie; c’erano cigni che guidavano la barca, volando sulle forti ali; lontano, più avanti, sul mare verde come berillo, splendeva una città dalle torri bianche. Poi si trovò in una di quelle torri: saliva la scala a spirale, correndo a passi leggeri e impazienti. Quelle scene cambiavano e ritornavano e portavano ad altre, che passavano senza lasciare tracce; ma all’improvviso Arren fu nel cupo e terrificante crepuscolo della brughiera, e l’orrore crebbe dentro di lui fino a impedirgli di respirare. Ma lui avanzava, perché doveva avanzare. Dopo molto tempo s’accorse che lì avanzare significava procedere in cerchio e ritornare sulle proprie tracce. Eppure doveva andarsene, doveva andare via. L’impulso diventò più incalzante. Si mise a correre. Via via che correva, i cerchi si restringevano e il terreno diventava inclinato. Nell’oscurità sempre più fitta Arren correva sempre più veloce, intorno al ciglio interno di un abisso, un gorgo enorme che sprofondava nella tenebra: e quando se ne accorse, scivolò e cadde.

—  Cosa ti succede, Arren?

Sparviero gli aveva parlato dalla poppa della barca. La grigia alba teneva immobili il mare e il cielo.

—  Niente.

—  L’incubo?

—  Niente.

Arren aveva freddo, e il suo braccio destro era intorpidito perché gli stava sdraiato sopra. Chiuse di nuovo gli occhi, di fronte alla luce che diventava più intensa, e pensò: Lui allude a questo e a quello, ma non mi dice mai chiaramente dove stiamo andando o perché, e neppure perché io devo andarci. E adesso si trascina dietro questo pazzo. Ma chi è più demente, il pazzo oppure io che vado con lui? Forse loro due possono intendersi: adesso i maghi sono pazzi, ha detto Sopli. Io potrei essere di nuovo in patria, a casa mia, nel palazzo di Berila, nella mia stanza dalle pareti scolpite, con i tappeti rossi sul pavimento e il fuoco acceso nel camino, e mi sveglierei per andare insieme a mio padre a caccia con i falchi. Perché sono venuto con lui? Perché mi ha condotto con sé? Perché è la mia strada, dice: ma questi sono discorsi da mago, che fanno sembrare le cose più grandi con grandi parole. Ma il significato delle parole è sempre altrove. Se ho una strada da seguire, è quella che conduce alla mia patria, e non a vagare senza ragione attraverso gli stretti. Ho doveri da compiere, in patria, e li sto evitando. Se lui pensa veramente che c’è all’opera un nemico della magia, perché è partito solo, con me? Avrebbe potuto condurre un altro mago che l’aiutasse… o cento maghi. Avrebbe potuto portare un esercito di guerrieri, un’intera flotta. È così che si deve affrontare un grande pericolo, mandando un vecchio e un ragazzo a bordo di una barca? È una follia. Anche lui è pazzo: è come ha detto, cerca la morte. Cerca la morte, e vuole portarmi con sé. Ma io non sono pazzo e non sono vecchio; non voglio morire; non voglio andare con lui.

Si sollevò, puntellandosi sul gomito, e guardò avanti. La luna, che era sorta davanti a loro quando avevano lasciato la baia di Sosara, era di nuovo dinanzi a loro, e stava tramontando. Dietro, a oriente, il giorno spuntava pallido. Non c’erano nubi, ma una lieve foschia malsana. Poi, il sole divenne caldo ma rimase velato, privo di splendore.

Per tutto quel giorno costeggiarono Lorbanery, bassa e verdeggiante sulla loro destra. Un vento leggero spirava dalla terra e gonfiava la vela. Verso sera doppiarono l’ultimo capo, e la brezza cadde. Sparviero chiamò nella vela il vento magico: come un falcone lanciato dal polso del cacciatore, la Vistacuta balzò e volò rapida, lasciandosi indietro l’isola della Seta.

Sopli il Tintore era rimasto per tutto il giorno rannicchiato al suo posto: evidentemente aveva paura della barca e del mare, soffriva il mal di mare ed era intristito e preoccupato. Adesso parlò, con voce rauca: — Stiamo andando verso occidente?

Aveva il tramonto proprio in faccia; ma Sparviero, paziente anche di fronte alle sue domande più stupide, annuì.

—  A Obehol?

—  Obehol è a ovest di Lorbanery.

—  Molto più a ovest. Forse il posto è là.

—  Com’è, quel posto?

—  Come posso saperlo? Come potevo vederlo? Non è a Lorbanery? L’ho cercato per anni, quattro anni, cinque anni, nel buio, la notte, chiudendo gli occhi, e sempre lui chiamava «Vieni, vieni», ma io non potevo andare. Io non sono un signore dei maghi, capace di riconoscere le vie nell’oscurità. Ma c’è un luogo dove si può giungere nella luce, sotto il sole. È questo che mia madre e Mildi non volevano capire. Continuavano a guardare nell’oscurità. Poi il vecchio Mildi è morto, e mia madre ha perso il senno. Ha dimenticato gli incantesimi che usavamo per tingere, e questo ha menomato la sua mente. Voleva morire, ma io le ho detto di attendere. Di attendere fino a quando io avessi trovato quel posto. Deve esserci. Se i morti possono tornare alla vita nel mondo, dev’esserci nel mondo un posto dove succede.

—  I morti ritornano alla vita?

—  Credevo che tu le sapessi, queste cose — disse Sopli, dopo una pausa, guardando Sparviero di sottecchi.

—  Cerco di saperle.

Sopli non replicò. Il mago lo guardò all’improvviso con uno sguardo diretto ed energico, sebbene il suo tono fosse gentile. — Stai cercando una via per vivere in eterno?

Sopli ricambiò lo sguardo per un momento; poi nascose tra le braccia l’irsuta testa bruno-rossiccia, intrecciando le mani sulle caviglie, e si dondolò avanti e indietro. Sembrava che assumesse quella posizione quando era Impaurito; e quando l’assumeva, allora non parlava, non mostrava di accorgersi di ciò che gli veniva detto. Arren gli voltò le spalle, disgustato e disperato. Come avrebbero potuto resistere insieme a Sopli, per giorni e settimane, a bordo di una nave lunga sei braccia? Era come condividere un corpo con un’anima malata…

Sparviero raggiunse Arren a prua e appoggiò un ginocchio sulla fiancata, guardando nella sera olivastra. Disse: — Quell’uomo ha uno spirito gentile.

Arren non rispose. Chiese invece, freddamente: — Cos’è Obehol? È un nome che non ho mai sentito.

—  Conosco il nome e la sua ubicazione sulle carte, nient’altro… Guarda là: le compagne di Gobardon!

La grande stella color topazio era più alta, adesso; e sotto di lei, appena al di sopra del mare scuro, brillavano una stella bianca a sinistra e una biancazzurra a destra, formando un triangolo.

—  Hanno nomi?

—  Il Maestro dei Nomi non li conosceva. Forse gli uomini di Obehol e di Wellogy hanno dato loro un nome. Non so. Ci addentriamo in mari sconosciuti, Arren, sotto il Segno della Fine.

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