Il ragazzo non replicò, guardando con una specie di ripugnanza le fulgide stelle senza nome sopra le acque infinite.
Mentre navigavano verso occidente, un giorno dopo l’altro, il tepore della primavera meridionale si stendeva sulle acque, e il cielo era sereno. Tuttavia, ad Arren sembrava che la luce fosse offuscata, come se scendesse obliqua attraverso un vetro. Il mare era tiepido, quando s’immergeva per nuotare, e gli dava scarso ristoro. I viveri salati non avevano sapore. Non c’era nulla di fresco e di vivido tranne la notte, quando le stelle ardevano con uno splendore più intenso di quanto lui avesse mai visto. Si sdraiava e le guardava fino a quando si addormentava. E quando dormiva, sognava: era sempre il sogno della brughiera o del baratro o di una valle circondata da strapiombi o di una lunga strada che scendeva sotto un cielo basso; e sempre la luce fioca e l’orrore che l’invadeva, e l’inutile tentativo di fuggire.
Non ne parlava a Sparviero, mai. Non parlava di nulla che fosse importante per lui, ma solo dei piccoli incidenti quotidiani della navigazione; e Sparviero, al quale era sempre stato difficile strappare qualche parola, adesso taceva abitualmente.
Arren si rendeva conto, adesso, di essere stato sciocco ad affidarsi corpo e anima a quell’uomo inquieto e misterioso, che si lasciava guidare dall’impulso e non cercava di tenere in pugno la propria vita e neppure di salvarla. Perché adesso sembrava impazzito; era così, pensava Arren, perché non osava affrontare il suo fallimento… il fallimento della magia quale grande potere al cospetto degli uomini.
Ormai era evidente che, per quanti conoscevano i segreti, non c’erano molti segreti nell’arte magica da cui Sparviero e tutte le generazioni d’incantatori e di maghi avevano acquisito tanta fama e tanta potenza. Non era molto di più dell’uso del vento e delle intemperie, la conoscenza delle erbe medicamentose, e un abile sfoggio di illusioni come nebbie e luci e metamorfosi, che potevano incutere soggezione agli ignoranti ma che erano soltanto trucchi. La realtà restava immutata. Non c’era nulla, nella magia, che assicurasse a un uomo un vero potere sugli altri uomini; ed era inutile contro la morte. I maghi non vivevano più a lungo degli uomini comuni. Tutte le loro parole segrete non potevano procrastinare neppure di un’ora la venuta della loro morte.
Neanche nelle piccole cose valeva la pena di far conto sulla magia. Sparviero era sempre avaro delle sue arti: viaggiavano spinti dal vento del mondo quand’era possibile, pescavano per procurarsi da mangiare, e razionavano l’acqua come tutti i marinai. Dopo quattro giorni di bordeggi interminabili in un vento contrario che arrivava a raffiche convulse, Arren gli domandò se non poteva chiamare un vento favorevole nella vela; e quando il mago scosse la testa, lui disse: — Perché no?
— Non chiederei mai a un uomo malato di partecipare a una gara di corsa — rispose Sparviero, — né aggiungerei una pietra a un dorso già troppo carico. — Era impossibile capire se parlava di se stesso o del mondo in generale. Le sue risposte erano sempre burbere, e difficili da comprendere. Quello, pensò Arren, era il vero cuore della magia: alludere a significati grandiosi mentre non si diceva nulla, e far sì che l’inazione apparisse come il supremo coronamento della saggezza.
Arren si era sforzato d’ignorare Sopli, ma era impossibile: comunque, ben presto si trovò legato al pazzo da una specie di alleanza. Sopli non era pazzo, o almeno non così semplicemente come lo facevano sembrare quei suoi capelli scarmigliati e il suo eloquio frammentario. In verità, l’aspetto più folle del suo carattere era forse il terrore che provava per l’acqua. Per salire su una barca aveva dovuto attingere a un coraggio disperato, e non era mai riuscito a smussare la paura: teneva la testa bassa per non dover vedere l’acqua che si gonfiava e lambiva intorno a lui. Stare in piedi gli dava le vertigini: si aggrappava all’albero. La prima volta che Arren decise di nuotare un po’ e si tuffò dalla prua, Sopli lanciò grida d’orrore; quando il ragazzo risalì a bordo, il poveraccio era verde. — Credevo che volessi annegarti — disse, e Arren dovette ridere.
Quel pomeriggio, mentre Sparviero stava seduto a meditare e sembrava che non vedesse nulla e non si curasse di nulla, Sopli si trascinò cautamente verso Arren. Chiese, a voce bassa: — Tu non vuoi morire, vero?
— Certo che no.
— Lui sì — disse Sopli, indicando Sparviero con un piccolo movimento della mandibila.
— Perché dici questo?
Arren aveva assunto un tono di principesca alterezza che per la verità gli veniva naturale; e Sopli l’accettò con la stessa naturalezza, sebbene avesse dieci o quindici anni più di lui. Rispose prontamente e con cortesia, anche se in quel suo solito modo frammentario. — Lui vuole andare nel luogo segreto. Ma non so perché. Lui non vuole… Non crede nella… nella promessa.
— Quale promessa?
Sopli alzò bruscamente gli occhi verso Arren, con un’espressione di umanità devastata; ma la volontà di Arren era più forte. Rispose, a voce molto bassa: — Lo sai. La vita. La vita eterna.
Un grande gelo invase le membra di Arren. Ricordò i suoi sogni: la brughiera, il gorgo, gli strapiombi, la luce fosca. Quella era la morte; quello era l’orrore della morte. Doveva sottrarsi alla morte, trovare la via. E sulla soglia stava la figura incoronata d’ombra, che protendeva una luce minuscola, non più grande di una perla, lo scintillio della vita immortale.
Arren incontrò per la prima volta gli occhi di Sopli: erano castani, molto chiari. E in quegli occhi vide che lui aveva finalmente compreso e che Sopli condivideva la sua conoscenza.
— Lui — disse il Tintore, indicando di nuovo Sparviero con un movimento della mandibola — non vuole rinunciare al suo nome. Nessuno può portare al di là il suo nome. La via è troppo stretta.
— Tu l’hai vista?
— Nella tenebra, nella mia mente. Non basta. Voglio arrivarci: voglio vederla. Nel mondo, con i miei occhi. E se… e se morissi, e non riuscissi a trovare la via, il posto? Molti non possono trovarlo: non sanno neppure che esiste. Solo alcuni di noi hanno il potere. Ma è difficile, perché si deve rinunciare al potere per arrivarci… Niente più parole. Niente più nomi. È troppo difficile farlo nella mente. E quando uno… muore, la sua mente… muore. — Ogni volta, s’impuntò sulla parola. — Io voglio sapere che potrò tornare. Voglio andare là. Dalla parte della vita. Voglio vivere, essere al sicuro. Odio… odio quest’acqua…
Il Tintore rattrappì le membra come fa un ragno quando cade, e ritrasse la testa fulva e ispida tra le spalle, per escludere la vista del mare.
Ma dopo quella volta Arren non evitò più di conversare con lui, poiché sapeva che Sopli non condivideva soltanto la sua visione ma anche la sua paura; e che, se si fosse arrivati al peggio, forse avrebbe potuto aiutarlo contro Sparviero.
Continuavano ad avanzare lentamente, tra le bonacce e le brezze irregolari, verso occidente, dove Sparviero affermava che Sopli li stava guidando. Ma Sopli non li guidava affatto: non sapeva nulla del mare, non aveva mai visto una carta nautica, non era mai salito su una barca, temeva l’acqua con un terrore morboso. Era il mago, a guidarli, e li conduceva volutamente fuori strada. Adesso Arren se ne rendeva conto, e ne capiva la ragione. L’arcimago sapeva che loro, e altri come loro, cercavano la vita eterna: ne avevano ricevuto la promessa, ne venivano attratti, e avrebbero potuto trovarla. Nel suo orgoglio, il suo schiacciante orgoglio di arcimago, temeva che la trovassero: li invidiava, e li temeva, e non voleva permettere che un altro uomo diventasse più grande di lui. Aveva intenzione di spingersi nel mare aperto, al di là di tutte le terre, finché si fossero perduti completamente e non potessero più ritornare nel mondo; e allora sarebbero morti di sete. Perché era disposto a morire anche lui, pur d’impedire loro di raggiungere la vita eterna.