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Erano tutti abbigliati di scuro, uomini e donne. I loro volti non si scorgevano chiaramente nella luce fioca, ma ad Arren sembrava che, tra coloro che stavano più vicini, nella valle al di là del ruscello, ci fossero alcuni che conosceva, anche se non avrebbe saputo dire i loro nomi.

Ged si alzò, e il mantello gli cadde da dosso. Il volto e i capelli e la camicia erano pallidi e argentei, come se la luce della luna si raccogliesse su di lui. Tese le braccia in un ampio gesto e disse, a voce alta: — O voi che avete vissuto, andate liberi! Io infrango il vincolo che vi trattiene: anvassa mane harw pennodathe!

Per un momento la moltitudine di figure silenziose rimase immobile. Poi si voltarono lentamente, parvero allontanarsi nella grigia oscurità, e scomparvero.

Ged si sedette. Tirò un profondo respiro. Guardò Arren e gli posò la mano sulla spalla, e quel tocco era caldo e deciso. — Non c’è nulla da temere, Lebannen — disse gentilmente, con ironia. — Erano solo i morti.

Arren annuì, sebbene gli battessero i denti e si sentisse gelato fino alle ossa. — Come… — incominciò: ma la mandibola e le labbra non gli ubbidivano ancora.

Ged lo comprese. — Sono venuti al suo comando. Questo è ciò che promette: la vita eterna. A una sua parola, possono ritornare. Al suo ordine, devono camminare sulle colline della vita, sebbene non possano smuovere neppure un filo d’erba.

—  È… Dunque anche lui è morto?

Ged scosse la testa, pensieroso. — I morti non possono richiamare nel mondo i morti. No, ha i poteri di un uomo vivo, e anche di più… Ma se qualcuno ha pensato di seguirlo, lui l’ha ingannato. Serba il potere per se stesso. Gioca al re dei morti: e non dei morti soltanto… Ma quelle erano solo ombre.

—  Non so perché ho tanta paura di loro — disse Arren, pieno di vergogna.

—  Li temi perché temi la morte, e a ragione: perché la morte è terribile e va temuta. — Il mago gettò altra legna nel fuoco e soffiò sulle braci sotto la cenere. Un piccolo bagliore fiorì sui ramoscelli, una luce gradita ad Arren. — E anche la vita è terribile — aggiunse Ged. — E va temuta e lodata.

Si sedettero, avviluppandosi nei mantelli. Rimasero in silenzio per qualche tempo. Poi Ged parlò, in tono grave. — Lebannen, non so per quanto potrà provocarci con immagini e ombre. Ma tu sai dove andrà, alla fine.

—  Nella terra tenebrosa.

—  Sì. Tra loro.

—  Ora li ho visti. Verrò con te.

—  È la fede in me, che ti anima? Puoi fidarti del mio amore, ma non devi fidarti della mia forza. Perché credo di aver incontrato il mio degno avversario.

—  Verrò con te.

—  Ma se sarò sconfitto, se il mio potere o la mia vita finissero, non potrò guidarti sulla via del ritorno: e da solo non potrai ritornare.

—  Ritornerò con te.

Allora Ged disse: — Tu entri nella vita di adulto davanti alla porta della morte. — E poi, a voce molto bassa, pronunciò la parola o il nome con cui il drago aveva chiamato per due volte Arren: — Agni… Agni Lebannen.

Non parlarono più, e poco dopo il sonno ritornò a loro, e si sdraiarono accanto al piccolo fuoco, che aveva ripreso a divampare per breve tempo.

La mattina seguente si rimisero in cammino, verso nordovest: questa era la decisione di Arren, e non di Ged, il quale disse: — Scegli tu la nostra strada, ragazzo: tutte le vie sono uguali, per me. — Non si affrettavano, perché non avevano una meta e attendevano un segnale di Orm Embar. Seguirono la catena estrema di colline, la più bassa, quasi sempre in vista dell’oceano. L’erba era arida e corta, perennemente agitata dal vento. Le colline si ergevano auree e desolate alla loro destra, e sulla sinistra si stendevano le paludi salmastre e il mare occidentale. Una volta videro alcuni cigni in volo, lontano, verso il sud. Per tutto quel giorno non scorsero altri esseri viventi. E per tutto il giorno una specie di stanchezza — la stanchezza del timore, dell’attesa del peggio — crebbe nell’animo di Arren; e vennero l’impazienza e una collera cupa. Osservò, dopo ore di silenzio: — Questa terra è morta, come la terra stessa della morte.

—  Non dirlo — gli ingiunse seccamente il mago. Continuò a camminare per un po’, e quindi continuò, con voce mutata: — Guarda questa terra; guardati intorno. Questo è il tuo regno, il regno della vita. Questa è la tua immortalità. Guarda le colline, le colline mortali. Non durano in eterno. Le colline coperte di erba viva, e con i ruscelli che scorrono… In tutto il mondo, in tutti i mondi, nell’immensità del tempo, non c’è un altro ruscello uguale a questi, che scaturiscono freddi dalla terra dove nessun occhio li vede, e corrono verso il mare, attraverso il sole e l’oscurità. Profonde sono le sorgenti dell’essere, più profonde della vita e della morte.

Si fermò: ma nei suoi occhi, mentre guardava Arren e le assolate colline, c’era un grande amore, muto e doloroso. E Arren lo vide, e vedendolo vide Ged per la prima volta com’era in realtà.

—  Non saprei spiegare cosa intendo — mormorò Ged, tristemente.

Ma Arren pensò a quella prima ora nel Cortile della Fontana, all’uomo che si era inginocchiato accanto all’acqua corrente; e in lui sgorgò una gioia limpida come il ricordo di quell’acqua. Guardò il suo compagno e disse: — Ho dato il mio amore a ciò che è degno d’amore. Non è questo, il regno e la sorgente imperitura?

—  Sì, ragazzo — rispose Ged, gentilmente, dolorosamente.

Proseguirono in silenzio. Ma adesso Arren vedeva il mondo con gli occhi del compagno, e vedeva lo splendore vivente rivelato intorno a loro nella terra silente e desolata, come per un potere d’incantamento che trascendesse ogni altro, in ogni filo d’erba piegato dal vento, in ogni ombra e in ogni pietra. Come quando uno sta per l’ultima volta in un luogo amato, prima di un viaggio senza ritorno, e lo vede tutto, integralmente, reale e caro, come non l’ha mai visto prima e come non lo rivedrà mai più.

Quando venne la sera, linee dentellate di nubi salirono da occidente, portate dal mare sui grandi venti, e arsero fiammeggianti dinanzi al sole, arrossandolo mentre tramontava. Intento a raccogliere fascine per accendere il fuoco nella valle di un ruscello, in quella luce rossa, Arren alzò gli occhi e vide un uomo a meno di tre braccia da lui. Il volto di quell’uomo era indistinto e strano: ma Arren lo riconobbe. Era il Tintore di Lorbanery, Sopli, che era morto.

Dietro di lui stavano altri, e tutti avevano un volto immobile e triste. Sembrava che parlassero, ma Arren non riusciva a udire le loro parole: soltanto una specie di mormorio che il vento d’occidente portava via. Alcuni avanzarono lentamente.

Si alzò e li guardò, e poi guardò di nuovo Sopli: quindi voltò loro le spalle, si chinò e raccolse un altro ramoscello, sebbene gli tremassero le mani. L’aggiunse al carico, e poi ne raccolse un altro e un altro ancora. Infine si raddrizzò e si voltò indietro. Non c’era nessuno nella valle, solo la luce rossa che ardeva sull’erba. Ritornò da Ged e depose il carico di legna, ma non parlò di ciò che aveva visto.

Per tutta la notte, nell’oscurità nebbiosa di quella terra priva di anime viventi, ogni volta che si svegliava dal sonno irrequieto udiva intorno a sé i mormoni delle anime dei morti. Con uno sforzo di volontà, non li ascoltava e tornava ad addormentarsi.

Si svegliarono tardi, quando il sole, già alto di una spanna sopra le colline, si liberò finalmente dalla nebbia e rischiarò la fredda terra. Mentre consumavano il modesto pasto mattutino giunse il drago, volteggiando nell’aria sopra di loro. Dalle sue fauci scaturiva il fuoco, e fumo e scintille eruttavano dalle rosse narici: i denti luccicavano come lame d’avorio in quel bagliore livido. Ma non disse nulla, sebbene Ged lo salutasse e gridasse nella sua lingua: — L’hai trovato, Orm Embar?

Il drago ributtò all’indietro la testa e inarcò stranamente il corpo, graffiando il vento con gli artigli acuminati. Poi riprese a volare rapido, verso ovest, voltandosi a guardarli.

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