«Metti i soldi sotto la statua.»
«Cinquanta sacchi.»
«Sì. Adesso vieni qui e amami.»
Lui sbottona i blue jeans e si sfila la maglietta verde oliva. Lei gli massaggia le spalle con le sue dita scure, poi lo fa voltare e comincia a usare le mani, la lingua.
Lui ha l’impressione che la luce nella camera rossa sia diventata più fioca, e che ci sia solo la candela, che brucia con una bella fiamma, a illuminarla.
«Come ti chiami?» le chiede.
«Bilqis» risponde lei alzando la testa. «Con la Q.»
«Con che?»
«Non importa.»
Adesso lui trattiene il respiro. «Voglio mettertelo dentro» dice. «Lasciatelo mettere dentro.»
«D’accordo, dolcezza. Come vuoi. Però tu devi fare qualcosa per me.»
«Ehi» ribatte lui già sulle sue. «Sono io che pago, non dimenticartelo.»
Lei gli si mette cavalcioni e sussurra: «Lo so, dolcezza, lo so, tu mi paghi e invece dovrei essere io a pagare te, guardati, sono veramente una donna fortunata…».
Lui increspa le labbra come per dire che non è tipo da farsi incantare da quei discorsi da puttana, che non si fa fregare; lei è una prostituta, cazzo, mentre lui è praticamente un produttore, e sa tutto sulle fregature che si tirano all’ultimo minuto, però lei non vuole altri soldi. «Dolcezza» gli dice, «mentre mi scopi, mentre mi sbatti dentro quel grosso cazzo duro, mi potresti adorare?»
«Cosa dovrei fare?»
Lei si muove avanti e indietro: strofina la testa turgida del pene contro le labbra bagnate della vulva.
«Mi potresti chiamare dea? Mi potresti adorare? Mi potresti venerare con il tuo corpo?»
Lui sorride. Tutto lì? Ognuno è libero di eccitarsi come gli pare. «Ma certo» dice. Lei fa scivolare una mano tra le gambe e se lo infila dentro.
«Ti piace, vero, dea?» annaspa lui.
«Venerami, dolcezza» risponde Bilqis, la prostituta.
«Sì. Venero i tuoi seni e i tuoi capelli e la tua figa. Venero le tue cosce e i tuoi occhi e la tua bocca rossa come le ciliegie…»
«Sì…» cantilena lei, cavalcandolo.
«Venero i tuoi capezzoli dai quali scorre il latte della vita. Il tuo bacio è dolce come il miele e le tue carezze bruciano come il fuoco e io le venero.» Adesso le sue parole sono diventate più ritmiche, seguono il movimento dei corpi. «Portami il desiderio del mattino e la pace e la benedizione della sera. Lascia che cammini al buio senza incontrare pericoli e che venga di nuovo fino a te e ti dorma accanto e faccia ancora l’amore con te. Ti venero con tutto me stesso, con tutta la mia mente, con tutti i miei sogni e il mio…» si interrompe, prende fiato. «Ma cosa fai? E stranissimo. Stranissimo veramente…» e guarda in basso cercando di vedere il punto dove i loro corpi si congiungono, ma lei gli mette un dito sotto il mento e lo costringe ad alzare la testa in modo che possa vedere solo la sua faccia e il soffitto.
«Continua a parlare, dolcezza» gli dice. «Non ti fermare. Non è bello?»
«Una cosa così bella non l’avevo mai provata» le risponde lui in tutta sincerità. «I tuoi occhi sono stelle che bruciano nel…, merda, firmamento, e le tue labbra gentili come onde lambiscono la sabbia e io le venero» e adesso spinge sempre più a fondo dentro di lei; si sente elettrizzato, come se tutta la parte inferiore del suo corpo avesse ricevuto una scarica ad alto voltaggio: fallico, congestionato, beato.
«Concedimi il tuo dono» borbotta senza più rendersi conto di quello che dice, «il tuo dono più autentico e fammi sentire sempre. … sempre così… ti prego… io…»
E poi quando il piacere arriva all’apogeo dell’orgasmo, la sua mente esplode nel vuoto e tutto il suo essere si fonde con il perfetto nulla mentre sprofonda, continua a sprofondare…
A occhi chiusi, in preda agli spasmi, si abbandona all’istante, poi gli sembra di rollare, e di essere appeso a testa in giù, benché continui a provare piacere.
Apre gli occhi.
Sforzandosi di ritrovare il senno e la ragione pensa al momento della nascita e senza paura, in un attimo di perfetta lucidità post-coitale, si domanda se ciò che vede è realtà o illusione.
Ecco cosa vede:
È entrato dentro di lei fino al petto e mentre osserva incredulo e meravigliato lo spettacolo lei gli appoggia le mani sulle spalle e imprime una leggera pressione.
Il corpo di lui scivola ancora più dentro.
«Ma come fai?» chiede, o pensa di chiedere, ma forse lo pensa soltanto.
«Sei tu che lo fai, dolcezza» sussurra lei. Lui sente le labbra della vulva stringerglisi intorno al petto e alla schiena, costringendolo, avvolgendolo. Si domanda che cosa penserebbero, se lo vedessero. Si domanda perché non ha paura. E poi capisce.
«Ti venero con il mio corpo» sussurra, mentre lei lo spinge dentro del tutto. La vulva gli accarezza la faccia e i suoi occhi scivolano nell’oscurità.
Lei si distende sul letto come un’enorme gattona e sbadiglia. «Sì» dice. «Proprio così.»
Il cellulare Nokia suona, una trasposizione elettronica dell’Inno alla gioia. Lei lo prende e se l’avvicina all’orecchio.
Ha il ventre piatto, la vulva piccola, chiusa. Un velo di sudore le imperla la fronte e il labbro superiore.
«Pronto?» dice. E poi aggiunge: «No, dolcezza, non c’è. È andato via».
Spegne il telefono prima di adagiarsi completamente sul letto nella camera rossa, si stira un’altra volta, chiude gli occhi e si addormenta.
2
La portarono al cimitero
in una vecchia e grande Cadillac
La portarono al cimitero
e ve la lasciarono.
Canzone popolare
«Mi sono preso la libertà» disse Wednesday nel bagno del Jack’s Crocodile Bar mentre si lavava le mani «di ordinare anche per me e di far servire al tuo tavolo. Dopotutto ci sono molte cose di cui dobbiamo discutere.»
«Non mi pare» rispose Shadow. Si asciugò le mani con la carta, l’appallottolò e la gettò nel cestino.
«Ti serve un lavoro» disse Wednesday. «La gente non assume ex detenuti. Quelli come voi li fanno sentire a disagio.»
«Ho un lavoro che mi aspetta. Un ottimo lavoro.»
«Ti riferisci alla Muscle Farm?»
«Può darsi.»
«Allora niente da fare. Non c’è nessun lavoro che ti aspetta. Robbie Burton è morto e senza di lui è morta anche la Muscle Farm.»
«Sei un bugiardo.»
«Certo. Un grande bugiardo. Il migliore sulla piazza. Ma su questo argomento ti sto dicendo la verità, ho paura.» Infilò una mano in tasca, tirò fuori un quotidiano ripiegato e lo diede a Shadow. «A pagina sette» disse. «Torna di là. Puoi leggerlo al tavolo.»
Shadow spalancò la porta. Nel bar l’aria era densa e azzurra di fumo, e nel jukebox i Dixie Cups suonavano Iko Iko. Riconoscendo la vecchia canzone per bambini Shadow sorrise.
Il barista indicò un tavolo d’angolo già apparecchiato con una scodella di chili e un hamburger da una parte e, di fronte, una bistecca al sangue con patate fritte.
Look at my king all dressed in red,
Iko Iko all day,
I bet you five dollars he’ll kill you dead,
Jockamo-feena-nay.
Sedette e appoggiò il giornale sul tavolo. «Questo è il mio primo pasto da uomo libero. La tua pagina sette la leggerò quando avrò finito di mangiare.»
Finì l’hamburger, migliore di quelli che preparavano in prigione. Anche il chili era buono, decise dopo un paio di cucchiaiate, ma non il migliore dello stato.
Laura sapeva prepararlo alla perfezione. Usava carne magra, fagioli marroni, carote tagliate a pezzettini, una bottiglia circa di birra scura e peperoni piccanti a fettine. Lasciava cuocere il tutto per un po’, poi aggiungeva vino rosso, succo di limone e un pizzico di aneto fresco e infine misurava e aggiungeva il peperoncino in polvere. Più di una volta lui le aveva chiesto di fargli vedere come lo cucinava: osservava con attenzione, dal momento in cui lei affettava le cipolle e le faceva imbiondire nell’olio d’oliva. Aveva perfino trascritto dettagliatamente la ricetta e durante un fine settimana in cui lei non c’era aveva provato a prepararlo da solo. Era venuto buono, certamente commestibile, ma niente a che vedere con il chili di Laura.