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Fu sul punto di dargli un pugno, invece prese un profondo respiro. ("Come ti ho già detto, è meglio non far incazzare quelle troie all’aeroporto" disse Johnnie Larch da un ricordo, "perché potrebbero farti risbattere dentro in un amen.") Contò fino a cinque.

«Dispiace anche a me» disse.

L’uomo scosse la testa. «Se solo non fosse stato necessario farla soffrire» disse, e sorrise.

«È morta in un incidente d’auto» replicò Shadow. «Ci sono modi peggiori per morire.»

L’altro scosse di nuovo la testa, lentamente. Per un momento a Shadow sembrò incorporeo; come se l’interno dell’aeroplano fosse di colpo molto reale e il suo vicino no.

«Shadow, non è uno scherzo. Non è un trucco. Posso pagarti meglio di chiunque altro. Sei un ex detenuto. Non faranno la fila per assumerti.»

«Senti, signor non-so-come-cazzo-ti-chiami» disse Shadow sovrastando il frastuono dei motori, «i soldi di tutto il mondo non basterebbero.»

Il sorriso diventò più largo e a Shadow tornò in mente un documentario sugli scimpanzé in cui veniva spiegato che quando scimmie e scimpanzé sorridono in realtà mostrano i denti per esprimere odio, aggressività o terrore. Il sorriso di uno scimpanzé è da interpretare come una minaccia.

«Lavora per me. Qualche rischio c’è, è ovvio, ma se sopravvivi potrai avere tutto quello che il tuo cuore desidera. Potresti diventare il prossimo re d’America. Adesso, dimmi chi potrebbe ricompensarti con tanta generosità?»

«Ma chi sei?»

«Ah, sì. Siamo nell’era dell’informazione — signorina, potrebbe servirmi un altro Jack Daniel’s? Poco ghiaccio — anche se ovviamente non è mai stato diverso. Informazione e conoscenza: due valute che non sono mai andate fuori corso.»

«Ti ho domandato chi sei.»

«Vediamo. Be’, visto che oggi è sicuramente il mio giorno, perché non mi chiami Wednesday? Sono il signor Wednesday. Anche se, considerato il tempo, potresti addirittura chiamarmi Thursday. Che ne dici?»

«Ma come ti chiami, veramente?»

«Lavora per me e lavora bene» rispose l’uomo in chiaro «e magari te lo dirò. Ecco qua. Questa è la mia offerta. Pensaci su. Nessuno pretende che tu dica immediatamente di sì senza neanche sapere se stai per finire in una vasca piena di piraña o in pasto agli orsi. Prenditi tutto il tempo che ti serve.» Chiuse gli occhi e si appoggiò allo schienale.

«Non c’è niente da decidere» disse Shadow. «Tu non mi piaci. Non voglio lavorare per te.»

«Come ho già detto» rispose l’uomo senza aprire gli occhi, «non c’è fretta. Prenditi tutto il tempo necessario.»

L’aeroplano atterrò con uno scossone e alcuni passeggeri scesero. Shadow guardò dal finestrino: era un piccolo aeroporto in mezzo al nulla e prima di arrivare a Eagle Point c’erano altri due scali intermedi. Gettò un’occhiata all’uomo vestito di chiaro, il signor Wednesday. Sembrava addormentato.

Impulsivamente si alzò, afferrò la borsa e imboccò il corridoio. Scese la scaletta e a passo regolare attraversò la pista bagnata, diretto verse le luci del terminal. Cadeva una pioggia leggera.

Prima di entrare nell’edificio si fermò e si voltò a guardare. Nessun altro era sceso, dopo di lui. Entrò e noleggiò un’automobile, una piccola Toyota rossa, scoprì una volta arrivato nel parcheggio.

Aprì la cartina che gli avevano fornito in dotazione e la spalancò sul sedile accanto al suo. Eagle Point si trovava a circa trecentottanta chilometri.

Il temporale era passato, ammesso che fosse arrivato fin lì. Faceva freddo e il cielo era sereno. Le nuvole correvano davanti alla luna e per un attimo Shadow non capì cosa si stesse muovendo, se erano le nubi o la luna.

Guidò per un’ora e mezzo verso nord.

Si stava facendo tardi. Aveva fame e quando si rese conto di essere veramente affamato prese la prima uscita ed entrò nella città di Nottamun (1301 ab.). Fece il pieno di benzina all’Amoco e chiese alla cassiera annoiata dove poteva trovare qualcosa da mangiare.

«Al Jack’s Crocodile Bar. A ovest sulla County Road N.»

«Crocodile Bar?»

«Sì. Secondo Jack il coccodrillo dà un tono al locale.» Sul retro di un volantino color malva che pubblicizzava la vendita di polli arrosto, vendita il cui ricavato sarebbe stato devoluto a favore di una bambina bisognosa di un rene nuovo, gli disegnò il percorso per arrivare. «Ci sono un paio di coccodrilli, un serpente e una di quelle cose tipo lucertolone.»

«Un’iguana?»

«Esattamente.»

Attraversò la città, oltre un ponte, e dopo altri tre chilometri si fermò di fronte a una costruzione rettangolare con l’insegna luminosa della Pabst.

Il parcheggio era semivuoto.

Dentro, l’aria era densa di fumo e dal jukebox uscivano le note di Walking After Midnight. Shadow si guardò in giro per scovare i coccodrilli ma non riuscì a trovarli. Si chiese se la donna dell’area di servizio non lo avesse preso in giro.

«Cosa le preparo?» chiese il barista.

«Una birra alla spina e un hamburger completo. Con le patatine.»

«Un piatto di chili per cominciare? È il miglior chili dello stato.»

«Va bene. Dov’è il bagno?»

L’uomo indicò la porta d’angolo. Sopra lo stipite c’era una testa di alligatore imbalsamata. Shadow entrò.

Era un bagno pulito, ben illuminato. Prima di tutto Shadow si diede un’occhiata intorno, un’ispezione dettata dalla forza dell’abitudine. ("Ricordati, Shadow, mentre stai pisciando non ti puoi difendere" disse Low Key, pacato come sempre, nel ricordo.) Entrò nell’orinatoio di sinistra. Abbassò la cerniera e con grande sollievo pisciò per un’eternità leggendo il ritaglio di giornale appeso ad altezza occhi, con foto di Jack in compagnia di due alligatori.

Dall’orinatoio alla sua destra — eppure era certo di non aver sentito entrare nessuno — arrivò un cortese grugnito.

Visto in piedi l’uomo vestito di chiaro era più imponente di come gli era sembrato sull’aeroplano. Era alto quasi come Shadow, e Shadow era un colosso. Fissava dritto davanti a sé. Finì di pisciare, diede una scrollatina per liberarsi delle ultime gocce e chiuse la cerniera.

Poi sorrise come una volpe bloccata da una recinzione di filo spinato. «Allora» disse, «il tempo per pensare ce l’hai avuto. Lo vuoi o no il mio lavoro?»

Altrove, in America

Los Angeles, ore 23.26

In una stanza rosso scuro — il colore delle pareti è quello del fegato crudo — c’è una donna alta vestita come il personaggio di un fumetto con il sedere fasciato da un paio di shorts di seta attillatissimi e i seni prorompenti dalla camicia gialla annodata stretta. Porta i capelli neri legati in una crocchia alta sulla testa. In piedi accanto a lei c’è un uomo di bassa statura con una maglietta verde oliva e un paio di costosi blue jeans. Nella mano destra stringe un portafogli e un cellulare Nokia con la mascherina bianca rossa e blu.

Nella stanza rossa c’è un letto con le lenzuola di satin, bianche, e un copriletto color sangue di bue. Ai piedi del letto un tavolino di legno sul quale è appoggiata una statuetta di pietra dai fianchi enormi con sembianze femminili e, davanti, un candeliere.

La donna porge all’uomo una piccola candela rossa. «Tieni» dice. «Accendila.»

«Io?»

«Sì. Se vuoi avermi.»

«Dovevo farmi fare un pompino in macchina e via.»

«Può darsi» risponde lei. «Allora non mi vuoi?» Fa scorrere le mani dalle cosce al seno in un gesto di presentazione, come se stesse dimostrando un prodotto nuovo.

Una sciarpa di seta rossa sopra la lampada d’angolo tinge di rosso anche la luce.

L’uomo la guarda sbavando, poi prende la candela e la ficca nel candeliere. «Hai da accendere?»

Lei gli passa una scatola di fiammiferi. Lui ne prende uno, accende lo stoppino: la fiamma ondeggia e poi si stabilizza, la statua di donna senza testa, tutta fianchi e seno, sembra muoversi.

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