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Qualcosa si agitò nella nube nera che riempiva la testa di Chad. Shadow lo percepì e andò oltre, visualizzando le mani scure e pratiche di Marguerite Olsen, i suoi occhi intensi e i capelli lunghissimi e neri. Visualizzò il modo in cui piegava la testa e accennava a un sorriso, se era divertita. «Ti sta aspettando.» Shadow sapeva di dire la verità.

«Margie?»

In quel momento — in seguito non avrebbe saputo dire come aveva fatto, e dubitava di poterlo fare ancora — Shadow raggiunse la mente di Chad Mulligan e con estrema semplicità vi estrasse gli eventi di quel pomeriggio con la precisione e il distacco di un rapace che svuoti le orbite di un animale morto.

Chad rilassò la fronte aggrottata, batté le palpebre assonnato.

«Vai a trovare Margie. Mi ha fatto piacere rivederti, Chad. Stammi bene.»

«Certo» sbadigliò l’altro.

La radio gracchiò un messaggio e Chad allungò una mano per afferrare il microtelefono. Shadow uscì dalla macchina della polizia.

Si avvicinò alla sua. Vedeva la distesa grigia del lago in mezzo alla città. Pensò ai bambini morti che aspettavano sul fondo.

Tra poco Alison sarebbe affiorata in superficie…

Quando passò accanto alla casa di Hinzelmann vide che il pennacchio di fumo si era trasformato già in una vampata e sentì il suono della sirena dei pompieri.

Si diresse a sud verso la Highway 51. Andava al suo appuntamento finale. Ma prima, pensò, si sarebbe fermato a Madison per dire un ultimo addio.

La cosa che piaceva di più a Samantha Black Crow era fare la chiusura serale della Coffee House. Era una cosa che la calmava: le dava la sensazione di mettere ordine nel mondo. Infilava un cd delle Indigo Girls nello stereo e svolgeva gli ultimi lavori seguendo un ritmo solo suo. Innanzitutto puliva la macchina del caffè. Poi faceva il giro finale per assicurarsi che tutte le tazze e i piatti fossero tornati in cucina, e che i giornali sparsi nel locale fossero stati raccolti e ammucchiati ordinatamente vicino all’ingresso, pronti per essere riciclati.

La Coffee House le piaceva molto. Era un locale formato da una lunga serie di stanze serpeggianti piene di poltrone, divani e tavolini bassi, in una strada su cui si affacciavano molte librerie che vendevano libri usati.

Coprì il cheesecake avanzato e lo mise nel grande frigorifero, con uno straccio ripulì le ultime briciole. Le piaceva essere sola.

Un colpo battuto alla finestra attirò la sua attenzione richiamandola al mondo reale. Andò ad aprire la porta per far entrare una donna della sua età, con i capelli color magenta legati in una coda di cavallo. Si chiamava Natalie.

«Ciao» le disse Natalie alzandosi sulle punte per baciarla tra la guancia e l’angolo della bocca. Un tipo di bacio che può significare molte cose. «Hai finito?»

«Quasi.»

«Vuoi andare al cinema?»

«Certo. Mi piacerebbe. Ne ho ancora per cinque minuti. Perché non ti siedi a leggere l’"Onion"?»

«Ho già visto il numero di questa settimana.» Sedette vicino alla porta e rovistò tra la pila di giornali fino a quando non trovò qualcosa di suo gradimento. Cominciò a leggere mentre Sam riponeva il denaro della cassa in un sacchetto per metterlo nella cassaforte.

Andavano a letto insieme da una settimana. Sam si chiedeva se fosse quella la relazione che aspettava da tutta la vita. Si diceva che era soltanto per una questione di sostanze chimiche e ormoni se si sentiva felice, quando vedeva Natalie, e forse era davvero tutto lì; comunque sapeva che quando la vedeva le veniva voglia di sorridere. E che se erano insieme si sentiva a suo agio.

«In questo giornale» disse Natalie «c’è un altro di quegli articoli che si intitolano L’America sta cambiando?.»

«Be’, sta cambiando o no?»

«Questo non ce lo dicono. Dicono che forse sì, ma non sanno come, non sanno perché e forse non sta cambiando nemmeno.»

Sam sorrise. «Così hanno accontentato tutti, non ti pare?»

«Credo di sì.» Natalie aggrottò la fronte e tornò a leggere il giornale.

Sam lavò lo strofinaccio e lo ripiegò. «Comunque malgrado il governo e tutto il resto all’improvviso mi sembra che la mia vita vada benissimo. Forse è la primavera che è arrivata presto. È stato un lungo inverno e sono contenta che sia finito.»

«Anch’io.» Seguì una pausa. «L’articolo dice che un sacco di gente sta raccontando di fare strani sogni. Io non ne ho fatti. Niente di più strano del solito.»

Sam si guardò intorno per vedere se aveva dimenticato qualcosa. Niente. Aveva fatto un buon lavoro. Si sfilò il grembiule, lo appese in cucina. Poi tornò e cominciò a spegnere le luci. «Recentemente in effetti io ho fatto qualche sogno pazzesco» disse. «Ho perfino cominciato cominciato a scriverli in un diario. Quando mi sveglio li scrivo. Però poi quando leggo quello che ho scritto non vogliono dire più niente.»

Infilò la giacca e i guanti.

«Io ho studiato un po’ l’interpretazione dei sogni» disse Natalie. Natalie aveva fatto un po’ di tutto. Dallo studio di antiche discipline di autodifesa alle saune, dal feng shui e alla jazz dance. «Se me li racconti ti dico che cosa significano.»

«Va bene.» Sam aprì la porta e spense l’ultimo interruttore. Fece uscire Natalie, la seguì e chiuse l’ingresso della Coffee House. «Qualche volta ho sognato della gente che cadeva dal cielo. Altre volte sono sottoterra che parlo con una donna con la testa di bufalo. E altre ancora sogno questo tizio che ho baciato in un bar il mese scorso.»

Natalie sbuffò. «Una storia di cui avresti dovuto parlarmi?»

«Forse. Non una storia come pensi tu. Era un bacio tipo vaffanculo.»

«Gli stavi dicendo di andare ’affanculo?»

«No, stavo dicendo a tutti gli altri di andarci. Ma avresti dovuto esserci per capire la situazione.»

I tacchi di Natalie risuonavano sul marciapiede e Sam le camminava accanto. «È il proprietario della mia macchina.»

«Quella cosa rossa che hai preso quando sei andata a trovare tua sorella?»

«Sì.»

«E lui dov’è finito? Perché non se la riprende?»

«Non lo so. Forse è in prigione. Forse è morto.»

«Morto?»

«È possibile.» Sam esitò. «Qualche settimana fa ne ero certa. Non so dirti come ma lo sapevo con assoluta sicurezza. Poi invece ho cominciato a pensare che forse no, non era morto. Non so. Può darsi che le mie percezioni extrasensoriali non funzionino granché.»

«Per quanto tempo pensi di tenerti la macchina?»

«Fino a quando qualcuno non viene a reclamarla. Penso che lui vorrebbe così.»

Natalie la guardò sconcertata, poi disse: «E queste da dove vengono?».

«Cosa?»

«Le rose. Quelle che hai in mano, Sam. Da dove sono arrivate? Le avevi già, quando siamo uscite dalla Coffee House? Non credo, le avrei notate.»

Sam guardò in basso e sorrise: «Che carina sei stata. Scusa se non ti ho ringraziato subito. Sono bellissime. Grazie. Non sarebbero state più adatte rosse?».

Erano sei rose bianche, con i gambi avvolti in un pezzetto di carta.

«Non te le ho date io» disse Natalie con una smorfia.

E nessuna delle due parlò più fino a quando non arrivarono al cinema.

Tornata a casa, quella notte, Sam mise le rose in un vaso improvvisato. In seguito ne fece una copia in bronzo e tenne per sé la storia di come le aveva avute, anche se una notte che era molto ubriaca raccontò a Caroline, che aveva preso il posto di Natalie, la storia delle rose fantasma. Caroline convenne con lei che si trattava di una storia davvero strana e magica, ma in fondo al cuore non credette a una sola parola e quindi tutto andò bene.

Shadow aveva parcheggiato vicino a un telefono pubblico. Il numero gliel’aveva dato il servizio informazioni.

No, gli dissero. Non c’è. Probabilmente è ancora alla Coffee House.

Durante il tragitto si fermò per comperare le rose.

Trovò il locale dove lavorava Sam, attraversò la strada e rimase ad aspettare e osservare davanti a una libreria.

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