Il locale chiudeva alle otto, e dieci minuti dopo le otto Shadow vide Sam Black Crow uscire in compagnia di una donna più piccola con i capelli a coda di cavallo dall’insolita sfumatura di rosso, camminavano per mano come se quel gesto bastasse a tenere il mondo a bada, e chiacchieravano, o meglio Sam parlava e l’amica ascoltava. Shadow si chiese che cosa le stesse dicendo. Parlando sorrideva.
Le due donne attraversarono la strada e gli passarono davanti. La ragazza con la coda di cavallo gli arrivò a trenta centimetri di distanza, Shadow avrebbe potuto allungare una mano e toccarla, ma loro non lo videro.
Rimase a osservarle mentre si allontanavano lungo la strada e provò uno spasimo, come se dentro gli risuonasse un accordo in minore.
Era stato un bel bacio, rifletteva Shadow, però Sam non l’aveva mai guardato come stava guardando la ragazza con la coda di cavallo e non lo avrebbe mai più potuto fare.
«Che diavolo, mi rimane pur sempre il ricordo di Perù» disse tra sé mentre Sam si allontanava. «Di El Paso. I ricordi non me li toglie nessuno.»
Poi la rincorse e le infilò in mano le rose. Si allontanò velocemente perché non voleva che lei gliele restituisse.
Risalì la collina per tornare dove aveva parcheggiato la macchina e partì seguendo le indicazioni per Chicago senza superare mai il limite di velocità.
Era l’ultima cosa che doveva fare.
Non aveva fretta.
Passò la notte in un Motel 6. Svegliandosi la mattina si rese conto che i suoi indumenti puzzavano ancora della melma del lago. Li indossò pensando che comunque non dovevano durare troppo.
Pagò il conto. Cercò l’edificio di arenaria e riuscì a trovarlo facilmente. Era più piccolo di come lo ricordava.
Imboccò le scale camminando con calma, perché altrimenti avrebbe voluto dire che era ansioso di andare a morire, ma nemmeno troppo piano, perché la lentezza avrebbe significato paura. Qualcuno aveva spazzato e lavato le scale: non c’erano più i sacchi neri dell’immondizia, e invece che di verdura marcia adesso puzzavano di candeggina.
La porta rossa all’ultimo piano era spalancata: nell’aria aleggiava un odore di cibo stantio. Dopo un attimo di esitazione Shadow suonò il campanello.
«Arrivo!» gridò una voce femminile, e piccola come uno gnomo e straordinariamente bionda Utrennjaja Zarja uscì dalla cucina e si affrettò verso di lui asciugandosi le mani sul grembiule. Aveva un’aria diversa dalla prima volta, pensò Shadow, sembrava felice. Le guance erano rosse di fard e nei suoi vecchi occhi brillava una luce. Vedendolo rimase a bocca aperta e gridò: «Sei tornato a trovarci!». Gli corse incontro a braccia aperte. Lui si abbassò per abbracciarla, lei lo baciò sulla guancia. «È così bello rivederti! Però devi andare via subito.»
Shadow entrò. Tutte le porte delle stanze erano aperte (eccetto, naturalmente, quella di Polunochnaja Zarja) ed erano spalancate anche le finestre. Un venticello gentile soffiava lungo il corridoio.
«State facendo le pulizie di primavera» disse Shadow alla donna.
«Aspettiamo un ospite. Adesso però devi andartene davvero. Vuoi un caffè, prima?»
«Sono venuto per Chernobog» disse Shadow. «È arrivato il momento.»
Utrennjaja Zarja scosse la testa con impeto. «No, no. Non vuoi incontrarlo. Non è una buona idea.»
«Lo so, ma l’unica cosa che ho capito veramente su come ci si deve comportare con gli dèi è che se stringi un patto poi lo mantieni. Loro contravvengono a tutte le regole che vogliono. Noi no. Anche se provassi a uscire di qui sono sicuro che i miei piedi mi riporterebbero indietro.»
La donna sporse il labbro inferiore, poi disse: «È vero. Vai via per oggi e torna domani. Domani non ci sarà».
«Chi è?» gridò una voce dal fondo del corridoio. «Utrennjaja Zarja, con chi stai parlando? Non riesco a girare questo materasso da sola.»
Shadow percorse il corridoio e disse: «Buon giorno, Vechernjaja Zarja. Posso aiutarla?». Con un gridolino di sorpresa la donna lasciò cadere il materasso.
La stanza era piena di polvere: c’erano strati di polvere su ogni superficie, di legno e di vetro, e i granelli sospesi nell’aria danzavano nei raggi di sole entrati dalla finestra aperta, disturbati da una raffica occasionale di vento e dal pigro ondeggiare delle tendine di pizzo ingiallito.
Shadow ricordava quella stanza, ci aveva dormito Wednesday. Era la camera di Bielebog.
Vechernjaja Zarja lo guardò con aria incerta. «Il materasso» disse. «Bisogna girarlo.»
«È facile» rispose Shadow. Prese il materasso e lo capovolse con facilità. Era un vecchio letto di legno, e il materasso di piume, che pesava quanto un uomo, ricadde sulla rete alzando un nuvolone di polvere.
«Cosa ci fai qui?» gli chiese lei in tono bellicoso.
«Sono venuto perché in dicembre un giovanotto ha fatto una partita a dama con un vecchio dio e ha perso.»
I capelli grigi di Vechernjaja Zarja erano legati in una crocchia stretta. Fece una smorfia. «Torna domani.»
«Non posso» rispose lui con semplicità.
«È il tuo funerale, allora. Vai a sederti. Utrennjaja Zarja ti porterà una tazza di caffè. Chernobog dovrebbe arrivare da un momento all’altro.»
Shadow ripercorse il corridoio fino in salotto. La stanza, benché ora la finestra fosse aperta, era esattamente come la ricordava. Il gatto grigio che dormiva su un bracciolo del divano socchiuse un occhio, poi, poco impressionato da Shadow, ricominciò a ronfare.
Era lì che aveva sfidato Chernobog a dama, in quella stanza aveva puntato la sua vita per convincere un vecchio a prendere parte all’ultimo maledetto imbroglio di Wednesday. La brezza fresca che entrava dalla finestra aperta scacciava l’aria stantia.
Entrò Utrennjaja Zarja con un vassoio di legno rosso. Accanto alla tazzina smaltata di caffè nero fumante c’era un piattino pieno di biscotti con pezzetti di cioccolato. Appoggiò il vassoio sul tavolo davanti a Shadow.
«Ho rivisto Polunochnaja Zarja» disse lui. «È venuta a trovarmi nell’aldilà e mi ha dato la luna perché mi rischiarasse il cammino. Ha preso qualcosa da me ma non ricordo cosa.»
«Tu le piaci» rispose Utrennjaja Zarja. «Lei sogna tanto. E ci protegge. E talmente coraggiosa.»
«Dov’è Chernobog?»
«Dice che le pulizie di primavera gli danno ai nervi ed è andato a leggere il giornale nel parco. A comprare le sigarette. Magari oggi non ritorna nemmeno. Non sei obbligato ad aspettarlo. Perché non te ne vai? Vieni domani.»
«Aspetterò.» Non c’era nessuna forza magica che gli imponesse di aspettare, Shadow ne era sicuro. Era una decisione sua. Doveva farlo, e se fosse stato l’ultimo gesto della sua vita, bene, era lì di sua spontanea volontà. Dopo di che basta obblighi, niente più misteri né fantasmi.
Sorseggiò il caffè caldo, nero e dolce proprio come lo ricordava.
Sentì arrivare dal corridoio una profonda voce maschile e si mise seduto più diritto. Fu contento di vedere che non gli tremavano le mani.
«Shadow?»
«Buongiorno» disse. Rimase seduto.
Chernobog entrò con una copia del "Chicago Sun Times" che appoggiò sul tavolino. Fissò Shadow, poi gli tese una mano con aria incerta. Si scambiarono una stretta.
«Sono venuto per il nostro accordo. Lei ha fatto la sua parte. Adesso tocca a me.»
Chernobog annuì e aggrottò la fronte. Il sole gli faceva brillare i capelli grigi e i baffi, rendendoli quasi dorati. «È…» si accigliò, «non è…» si interruppe. «Va’ via, è meglio. Non è il momento adatto.»
«Faccia pure con comodo. Io sono pronto.»
Chernobog sospirò. «Tu sei un ragazzo molto stupido, lo sai?»
«Credo di sì.»
«Sei un ragazzo stupido. E in cima a quella montagna hai fatto un ottimo lavoro.»
«Ho fatto quello che dovevo fare.»
«Può darsi.»
Chernobog si avvicinò alla vecchia credenza di legno e si chinò per sfilare da sotto una valigetta diplomatica. Toccò le chiusure che scattarono con un clic soddisfacente, sollevò il coperchio e prese dalla valigia un martello. Lo soppesò: sembrava una mazza in miniatura, con il manico di legno macchiato.