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Nuvole scure si avvicinavano dall’oceano. C’erano cavalloni nella baia. Anna si abbottonò la giacca quando uscì dall’edificio principale, poi si avviò alla spiaggia. La forma locale di copertura del terreno… qualcosa che assomigliava a muschio giallo… aveva buttato steli di spore negli ultimi giorni. Erano alti, soffici e curvi per via del vento.

Primi d’autunno. Presto le correnti dell’oceano sarebbero cambiate e avrebbero spostato la sua area di studio lontano dalle acque fredde attorno al polo. Era in baie come quella che si sarebbero riuniti, mandandosi segnalazioni con elaborate manifestazioni luminose e si sarebbero scambiati il materiale genetico (con cura, con molta cura, viticci d’accoppiamento che spuntavano tra molti altri, pungenti), e avrebbero infine prodotto i giovani. Dopo di che, se in vena, alcuni avrebbero bighellonato nei dintorni e si sarebbero messi a chiacchierare con gli umani.

Anna salì sul pontile, che si estendeva nella baia, lungo e snodato.

Quella era la parte della giornata che preferiva. Muoversi sugli stretti segmenti era una specie di microviaggio. Come in tutti i viaggi, Anna si sentiva (per una volta) fuori della vita. Non era la persona che aveva lasciato la stazione di ricerca, né la persona che sarebbe arrivata alla barca di ricerca; poteva considerare passato e futuro con calma.

Si soffermò perlopiù sul presente. Il pontile si alzava e si abbassava, rispondendo al suo peso e al movimento dell’acqua. Il vento soffiava ora freddo ora soltanto fresco.

Sulla Terra, una giornata come quella sarebbe stata piena di gabbiani e del loro rumore; ma quel pianeta non aveva uccelli e le condizioni atmosferiche avevano indotto gli insetti del luogo a rintanarsi. Anna rimase in ascolto, udendo soltanto l’acqua e il vento e il cigolio metallico che i segmenti del pontile producevano sfregando l’uno contro l’altro.

La barca era alla punta estrema del pontile. Più in là, ancorato al centro della baia, c’era un galleggiante per le comunicazioni: lungo dieci metri e bianco, chiamato (inevitabile) Moby Dick.

Anna salì a bordo e si chinò nella cabina. Yoshi era lì che beveva tè e guardava gli schermi. Le lanciò un’occhiata. — La scorsa notte, è venuto Rosso-rosso-blu, battendo i flagelli e divertendosi un po’.

— In anticipo di tre settimane — osservò lei.

Yoshi annuì.

— La solita routine?

Lui annuì di nuovo, il che significava che l’alieno aveva lampeggiato una serie di luci che volevano dire "salute… benvenuti… non aggressione".

— Ho risposto. Le luci su Moby funzionano tutte bene. Rosso ha fatto un paio di volte il giro, poi ha mandato il segnale di riconoscimento e se n’è andato. — Batté su uno schermo con un punto luminoso. — Ecco Rosso. Vicino all’entrata e non si muove. Aspetta qualcuno sessualmente più interessante di Moby.

Dopo cinque anni, gli alieni… gli alieni di Anna… conoscevano Moby e sapevano che Moby non scambiava materiale genetico. Finché non avessero finito di accoppiarsi, non avrebbero mostrato alcun interesse per il galleggiante.

Anna guardò fuori dal finestrino la baia grigio-verde. C’erano gocce d’acqua sul plexiglass: spruzzi o l’inizio della pioggia. La sottobase hwar era là fuori, su un’isola al largo che sarebbe stata a malapena visibile in una giornata limpida, abbastanza vicina perché gli hwarhath potessero andare e venire dalla zona diplomatica, ma abbastanza lontana perché potessero essere ragionevolmente sicuri della loro privacy.

— Voleranno avanti e indietro tutti i giorni — osservò lei. — Proprio sulla baia. Spero che non diventi un problema.

— Non credo che Rosso e compagnia abbiano in mente qualcos’altro oltre al sesso e alla paura, ammesso che abbiano delle menti. — Yoshi si alzò e chiuse il thermos. — Divertiti, Anna.

Anna si sistemò per le otto ore che le toccavano, il thermos aperto, il caffè fumante in una tazza. Non appena Yoshi se ne fu andato, attivò il sistema audio.

Yoshi trovava che i rumori prodotti dagli animali della baia fossero un po’ irritanti. Ma ad Anna piacevano: i gemiti e i fischi dei vari tipi di pesci e gli scoppi secchi che provenivano (ne erano quasi sicuri) da creature che assomigliavano a trilobiti che vivevano nella melma sul fondo.

Ah! Quel giorno era di turno il pesce-fischio. Anna sorseggiò il caffè e rimase in ascolto, controllando di tanto in tanto gli schermi.

Alle dieci e zero-zero, udì il rumore di un motore, si alzò e uscì in coperta. Eccolo… l’aereo hwarhath… che arrivava da est. La pala di un ventilatore, le parve, quando passò sopra di lei. Assolutamente comune, forse un po’ tozzo, smussato e non elegante come le navi degli alieni. Sebbene stesse forse memorizzando; noi vediamo ciò che ci aspettiamo di vedere. Adesso cadeva una pioggia regolare. Una giornata schifosa per il primo incontro tra l’umanità e l’unica altra specie interstellare conosciuta.

Rientrò e accese l’unità di comunicazione. Come promesso, c’era il campo d’atterraggio, un’ampia striscia di cemento battuta dalla pioggia. Una dozzina di figure erano ferme sulla pista tra le pozze d’acqua: i diplomatici umani. Erano tutti civili, con lunghe palandrane scure e gli ombrelli in mano, e tutti uomini. Gli alieni avevano insistito. Non avrebbero negoziato con donne, il che non prometteva niente di buono sulla loro apertura mentale. Ma forse c’era una spiegazione che andava al di là di un semplice fanatismo; era sempre una buona idea sospendere i giudizi quando si aveva a che fare con una cultura veramente estranea.

Gli umani militari non erano ripresi, e tutti gli altri si trovavano all’interno della stazione. Il campo sarebbe stato off-limits fino a quando il benvenuto ufficiale non fosse finito e gli alieni non fossero stati tutti al sicuro all’interno della zona diplomatica. Ma, come gesto di cortesia, era stata piazzata una telecamera ed era collegata col sistema di comunicazione della stazione. Ogni umano sul pianeta avrebbe potuto assistere a quel momento storico. Anna si versò dell’altro caffè nella tazza.

L’aereo atterrò sollevando nuvoloni d’acqua. Le lunghe palandrane svolazzarono e gli ombrelli cercarono di fuggire, sollevandosi come grandi avvoltoi neri. Uno si rovesciò. Anna rise. Ridicolo!

Il portello del velivolo si aprì. Anna attese, la tazza ferma a metà strada dalla bocca. Una scaletta venne srotolata e degli individui uscirono. Erano larghi e solidi, umanoidi, e grigi come il cielo e la foschia. Niente palandrane e niente ombrelli. Al contrario, gli alieni indossavano vestiti attillati dello stesso colore del pelo.

Si muovevano sotto la pioggia a loro agio… con casualità… come se le condizioni atmosferiche non avessero importanza, come se la pioggia non esistesse. I primi portavano fucili in spalla, un braccio sulla canna, la bocca delle armi rivolta verso il basso. Sembravano rilassati ma si muovevano (Anna notò) con precisione, sebbene non fosse una precisione militare. Come atleti o attori.

Bello, pensò. Davvero impressionante. Gli alieni avevano il senso della drammaticità.

Si sistemarono su due file, lasciando tra di loro un passaggio. Fu poi la volta delle persone importanti: corpi grigi più massicci e, tra loro, un corpo che era molto più alto e più magro, con spalle curve contro la pioggia.

Per un momento… chi era l’operatore? …la telecamera zumò. Anna vide un viso senza pelo, lungo e stretto, capelli che gocciolavano e occhi semichiusi. Un umano.

A quel punto, la trasmissione terminò.

Anna cominciò a premere pulsanti, cercando dapprima di far tornare l’immagine, poi di raggiungere qualcuno alla stazione. Inutile. La sua unità era ancora in funzione. Poteva sentirlo: un ronzio debole e basso. Ma nient’altro, solo un ronzio. L’intero sistema doveva essere stato chiuso.

Uscì in coperta. La zona diplomatica si trovava in cima alla collina che sorgeva alle spalle della stazione di ricerca. Era un agglomerato di cupole prefabbricate, a malapena visibili attraverso la pioggia. La pista d’atterraggio era al di là della zona, interamente nascosta.

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