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— Dovremmo continuare su questo.

— Va diritto. Ormai dobbiamo andare verso ovest. Forse gira intorno alla montagna ed esce di nuovo al Gradino Alto. Continua all’infinito.

— È quello giusto — disse lui.

— Sono stanca, Hugh.

Era passato meno di un attimo, era passato molto tempo da quando s’erano fermati per riposare o per mangiare. Lui voleva proseguire, ma sedette e attese, lì alla biforcazione del sentiero sotto gli alberi pallidi, mentre Irena mangiava. Proseguirono. Quando giunsero a un ruscello, bevvero, e proseguirono.

Adesso il sentiero risaliva. Quelle erano le sole direzioni: destra e sinistra, verso l’alto e verso il basso. Il senso dell’asse era ormai andato perduto da tempo, non aveva più significato. La porta non c’era. Il sentiero divenne molto erto, zigzagando fra i burroni che sfregiavano la mole della montagna, sempre verso l’alto.

— Hugh!

Il nome che lui odiava giungeva da una grande distanza, nel silenzio. Il vento aveva smesso di soffiare. Non c’era il minimo suono. Taci, pensò lui, con un cupo fremito d’ansia, ora devi tacere. Si fermò, controvoglia, e si voltò. Per un po’, non vide neppure la ragazza. Era molto più giù, sul sentiero dietro di lui, sul lungo, buio, ripido sentiero sotto gli alberi fitti, e il suo viso era una macchia bianca. Se lui avesse percorso solo qualche altro passo, si sarebbero perduti di vista. Così sarebbe stato meglio. Ma si fermò e attese. Lei lo raggiunse molto lentamente, salendo faticosamente l’erta, e quella era una parola presa dai libri, faticosamente, era faticoso percorrere quella strada. Lei era stanca. Lui non sentiva la stanchezza; solo quando si fermava e doveva restare immobile, come ora, era faticoso. Se avesse potuto continuare, sarebbe riuscito a camminare per sempre.

— Non puoi continuare così — disse lei in un aspro mormorio ansimante quando finalmente lo raggiunse.

Per lui, parlare fu un grande sforzo. — Non è molto lontano.

— Che cosa?

Non parlare, avrebbe voluto dirle. Riuscì a sussurrarlo: — Non parlare. — Si voltò per procedere.

— Hugh, aspetta!

C’era l’angoscia della paura, in quel grido bisbigliato. Hugh si voltò verso di lei. Non sapeva che cosa dirle. — Tutto a posto — disse. — Aspetta qui per un po’.

— No — disse lei, fissandolo. — No, se tu continui. — Gli passò davanti, sullo stretto sentiero, di slancio, camminando con un’andatura sussultante, ossessiva. Lui le andò dietro. Il sentiero svoltava e saliva e svoltava, sotto gli abeti scuri, sotto le pareti di roccia. Girarono intorno a un angolo che sporgeva sopra le immense, scure foreste digradanti, e videro tutta la terra del crepuscolo, sotto di loro, scurirsi verso il lontano occidente. Non si fermarono, ma proseguirono, entrando tra gli alberi, fronde e rami, nella montagna, sotto la roccia. A destra, le pareti della vetta erano aggettate. Gli alberi, tra i picchi sfregiati e i macigni, crescevano bassi e stenti. Adesso il suolo era roccioso, e il sentiero era pianeggiante.

Il passo pesante e sussultante di Irena si spezzò. Lei si fermò. Avanzò ancora un poco e si fermò di nuovo. — Là.

Erano di fronte a una parete di roccia, intorno alla quale la pista passava all’esterno, restringendosi. Hugh percorse quei pochi passi, e svoltando l’angolo vide la curva interna della parete di roccia, sovrastata da cespugli quasi privi di fogliame. Nella roccia c’era l’imboccatura di una grotta. Era quello, naturalmente: quello era il luogo. Restò a guardarla, senza paura e senza emozione. Era lì. Finalmente. Di nuovo. Aveva continuato a venire lì tutta la sua vita, e non aveva mai desistito all’inizio.

Gli restava solo da percorrere quei pochi passi, giù fino allo spiazzo pietroso e pianeggiante davanti alla grotta, ed entrare. Nella grotta era buio. Non il crepuscolo: la tenebra. Dall’inizio del tempo fino alla fine.

Si mosse.

Lei lo precedette, correndo, spingendosi avanti sullo stretto sentiero, e scese e attraversò lo spiazzo pianeggiante, verso l’imboccatura della grotta, ma non entrò. Si chinò e raccattò una pietra e la scagliò entro l’imboccatura buia, urlando con voce esile come quella di un uccello: — E va bene, vieni fuori! Vieni fuori! Vieni fuori!

— Stai indietro — disse Hugh, raggiungendola in tre passi. Stringendo il fodero con la mano sinistra sguainò la spada con la destra, perché non c’era altro da fare. L’alito freddo uscì sospirando dalla grotta, e dalla tenebra fredda, risvegliata, venne la voce enorme, l’ululato avido. E la faccia che non era una faccia, priva d’occhi, si sporgeva, bianca e cieca, si calava brancolando verso di lui. Stringendo l’elsa della spada con entrambe le mani, Hugh spinse la lama verso l’alto, nel bianco ventre grinzoso, e l’abbassò con tutte le sue forze. Il singulto sibilante divenne un urlo. In un fiotto di sangue pallido e d’intestini lucenti, l’essere s’impennò contorcendosi, strappandogli la spada dalle mani, e poi gli crollò addosso, schiacciandolo mentre cercava, troppo tardi, di buttarsi a lato per evitarlo.

8.

Si muoveva ancora. Il sussulto delle braccia (piccole, come le zampe anteriori di una lucertola, contro la massa del corpo, ma modellate come braccia e mani umane) era ritmico, un riflesso senza scopo. Braccia umane, braccia di donna, e quelle erano mammelle, appuntite come le mammelle d’una scrofa, tra le braccia e più in basso, sul ventre, dove, mentre le convulsioni pulsanti del corpo continuavano, la ferita appariva e riappariva e riappariva ancora, e l’elsa della spada sporgeva dalla piaga. Irena, sulle mani e sulle ginocchia, si acquattò ancora di più e vomitò sulle rocce e sulla polvere. Quando fu in grado di farlo, cominciò a trascinarsi via strisciando, per allontanarsi dall’essere morente e dal lezzo del ventre squarciato. Ma Hugh giaceva sotto quella cosa, e come poteva lasciarlo là? Ma anche lui era morto o moribondo, e lei aveva paura, non poteva far nulla. Non riusciva neppure a tenersi in piedi. Continuava a tremare e a emettere un suono bizzarro come «Ao, ao». Quando si fu trascinata vicino alle braccia sussultanti, così vicino da vedere le viscere che scivolavano all’interno della ferita, e Hugh riverso sul dorso, inchiodato sotto l’enorme zampa grinzosa e il corpo, non riuscì neppure ad afferrarlo. Non poteva trascinarlo fuori. Doveva smuovere il drago, cercare di spingerlo via. Quando appoggiò le mani contro il fianco corrugato, lanciò un urlo.

Era freddo, un freddo di morte. Era inerte e rigido e le convulsioni lo scuotevano automaticamente. Lei spinse, a testa bassa e ad occhi chiusi, piangendo. Il drago si mosse un poco, ondeggiò sotto la sua spinta, rotolò lentamente sul dorso, liberando il corpo di Hugh che giaceva in un viscidume di muco e di sangue. I sottili avambracci bianchi adesso erano levati in aria. I loro sussulti, più fiochi e più rapidi, lei li scorgeva solo con la coda dell’occhio mentre si acquattava vicino a Hugh. Lui giaceva sul dorso, con le due gambe piegate da una parte, la faccia cancellata da una maschera di sangue. Cercò di ripulirgli il volto con le mani, di liberargli le narici e la bocca, perché lui respirava, un respiro ansimante e superficiale, a intervalli; ma Hugh giaceva immobile e il suo volto era freddo. Il drago gli era caduto addosso e gli era rimasto addosso troppo e aveva agghiacciato e soffocato la sua vita. Era schiantato. Se fosse riuscita a tirarlo fuori da quell’orrore, il sangue e gli intestini scoppiati e la bianca mole sussultante che lei non voleva guardare, se fosse riuscita a trascinarlo altrove e a pulirlo e ad accendere un fuoco e a scaldarlo, a scaldarsi tutti e due! Ma non poteva muoverlo. Se lui aveva la schiena lesionata, avrebbe rischiato di ucciderlo, tentando di spostarlo. Non osava neppure muovergli le gambe, per timore che fossero fratturate.

— Cosa devo fare? — chiese piagnucolando, a voce alta, e si sentì la lingua arida e gonfia. Aveva avuto sete per molto tempo, per molte miglia prima che arrivassero alla grotta, per molte ore, mentre Hugh procedeva con quell’andatura costante e implacabile, senza fermarsi mai, spronato o attratto, e lei non poteva far altro che restare con lui perché sapeva che nessuno di loro ce l’avrebbe mai fatta a uscire da quel paese, da solo. E la strada aveva continuato a salire, e non avevano più incontrato ruscelli, ed erano arrivati alla grotta. Ma si sentiva la bocca come gesso arido, e doveva esserci acqua da qualche parte. Si accoccolò sui calcagni, guardando con gli occhi offuscati lo spiazzo pietroso davanti allo squarcio buio della caverna, i pendii nudi e le pareti a picco che la sovrastavano, le cime degli alberi e le creste aldilà della gola. Non voleva guardare la cosa bianca, ma il tremito degli avambracci era sempre all’orlo della sua visuale; era quasi cessato, un brivido ricorrente. Lei cercò di pulirsi le mani sulle pietre, perché erano viscose e incrostate dal putridume e dal fango. Sentì il respiro mozzarsi nella gola di Hugh. Lui mosse le mani e tossì, un piccolo suono fragile, come un bambino. Le labbra si mossero, e poco dopo aprì gli occhi. In un primo momento erano opachi, ma quando lei gli si rannicchiò accanto e disse il suo nome, la guardò, e Irena vide gli occhi azzurri, l’anima viva.

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