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Cercando di raccontare la storia degli ultimi tre giorni, egli disse: — Siamo usciti dietro la loro linea di marcia, ieri pomeriggio. — Le parole non avevano realtà; e neppure l'aveva quella stanza calda, la faccia degli uomini che conosceva da sempre e che lo stavano ascoltando. — Il… il terreno dietro di loro, dove era passata l'intera migrazione, in alcune delle valli più strette… sembrava la terra dopo una frana. La terra nuda. Nulla di nulla. Ogni cosa ridotta in polvere, ridotta a nulla dal passaggio di tanti piedi…

— Ma come possono andare avanti? Che cosa mangiano? — mormorò Huru.

— Le scorte invernali delle città che conquistano. Ormai il territorio è spoglio, i raccolti sono stati portati all'interno, le bestie più grandi sono andate a sud. Devono saccheggiare ogni città che incontrano sul loro cammino, e mangiare le mandrie di hann, altrimenti moriranno di fame prima ancora di essere usciti dalla zona delle nevi.

— Allora verranno anche qui — disse tranquillamente uno degli Alterra.

— Credo di sì. Domani o dopodomani. — Questo era vero, ma anche questo non era reale. Si passò la mano sulla faccia, e senti la sporcizia e la stanchezza, e il dolore alle labbra, che ancora non gli era passato. Gli era parso di dover fare il proprio rapporto ai governanti della città, ma adesso era così stanco che non poteva dire altro, e non riusciva ad ascoltare ciò che gli altri dicevano. Si volse a Rolery, inginocchiata in silenzio accanto a lui. Senza alzare i suoi occhi d'ambra, ella disse assai piano: — Dovresti andare a casa, Alterra.

Egli non aveva pensato a lei in tutte quelle interminabili ore di lotta e di fuga e di spari e di attesa nascosto nei boschi. La conosceva da due settimane; aveva parlato con lei, con una certa lunghezza, forse tre volte; era stato con lei una volta sola; l'aveva presa in moglie nel Palazzo della Legge tre giorni prima, all'alba, e un'ora più tardi era partito per la guerriglia. Sapeva ben poco di lei, ed ella non apparteneva neppure alla sua specie. E tra un paio di giorni, probabilmente, entrambi sarebbero morti. Egli fece la sua risata silenziosa e posò gentilmente la mano sulla sua. — Sì, portami a casa — disse. Silenziosa, delicata, diversa, ella si alzò e attese ch'egli prendesse commiato dagli altri.

Le aveva detto che Wold e Umaksuman, con circa duecento persone della sua gente, erano scappati o erano stati salvati dall'espugnata Città Invernale, e adesso si erano rifugiati a Landin. Ella non aveva chiesto di raggiungerli. Mentre salivano insieme per la stradicciola che portava dalla casa di Alla a quella di Agat, ella gli chiese: — Perché siete entrati a Tevar per salvare la gente?

— Perché? — La domanda gli pareva strana. — Perché non si sarebbe salvata da sola.

— Questa non è una ragione, Alterra.

Pareva sottomessa, la timida moglie indigena che eseguiva i voleri del suo signore. In realtà, egli si stava accorgendo, era ostinata, aveva una forte volontà ed era orgogliosa. Parlava piano, ma diceva esattamente ciò che desiderava dire.

— No, è una ragione, Rolery. Non si può rimanere seduti a guardare quei maledetti mentre uccidono lentamente la gente. E poi, io voglio combattere, difendermi…

— Ma la vostra città: come pensate di dar da mangiare alle persone che avete portato qui? Se i Gaal vi assediano, oppure dopo, nell'Inverno?

— Abbiamo abbastanza. Il cibo non è ciò che ci preoccupa. Ciò che ci serve sono soltanto gli uomini.

Incespicava un poco, per la stanchezza. Ma la notte chiara e gelida gli aveva schiarito la mente, ed egli sentiva risorgere una piccola fonte di gioia che da tempo non conosceva più. Aveva la sensazione che quel piccolo sollievo, quella leggerezza di spirito, gli venisse data dalla presenza di lei. Da molto tempo si sentiva responsabile di tutto. Ella, la straniera, la forestiera, di sangue e mentalità diversi, non condivideva il suo potere o la sua coscienza o le sue conoscenze o il suo esilio. Ella non condivideva nulla di lui, ma l'aveva incontrato e si era unita a lui completamente e istantaneamente, attraversando l'abisso della loro grande diversità: come se fosse stata quella differenza, l'estraneità fra loro, a farli incontrare, e, unendoli insieme, a liberarli.

Entrarono per la porta che dava sulla strada, e che era priva di serratura. Nessuna luce era accesa nella casa alta e stretta, di pietra rozzamente intonacata. Sorgeva laggiù da tre Anni, centottanta fasi lunari; il suo bisavolo era nato lì, e suo nonno, e suo padre, e lui. Gli era familiare come il suo stesso corpo. Entrare in essa con lei, la donna nomade che per casa aveva avuto solo una tenda o l'altra, sul fianco di questa o di quella collina, o le brulicanti gallerie scavate sotto la neve, gli diede un piacere particolare. Provò verso di lei una tenerezza che non avrebbe saputo esprimere. Senza pensarci, pronunciò il suo nome: non con le parole, ma paraverbalmente. Subito ella si voltò verso di lui nell'oscurità del corridoio; nell'oscurità, lo fissò in volto. La casa e la città intorno a loro erano avvolte nel silenzio. E nella mente, egli senti Rolery pronunciare il suo nome, come un sussurro nella notte, come un contatto al di là dell'abisso.

— Tu mi hai parlato mentalmente — disse a voce alta, intimorito e meravigliato. Ella non disse nulla, ma ancora una volta egli udì nella mente, lungo il sangue e i nervi, la mente di lei che si protendeva verso di lui: Agat, Agat…

CAPITOLO DECIMO

Il vecchio capo

Il vecchio capo era robusto. Sopravvisse al colpo, alla commozione cerebrale, all'esaurimento, all'assideramento e al disastro con volontà intatta, e con quasi intatta intelligenza.

Alcune cose non le capiva, e altre non erano sempre presenti alla sua mente, ogni momento. Semmai, era lieto di essere lontano dalla soffocante oscurità della Casa Familiare, dove, a furia di starsene seduto accanto al fuoco, era divenuto una simile donnicciola; questo lo disse assai chiaramente. Gli piaceva — e gli era sempre piaciuta — quella città fondata sulla roccia, illuminata dal sole e spazzata dal vento, dei Nati Lontano, costruita prima che fosse nata una qualsiasi delle persone tuttora viventi, eppure ancora salda e immutabile allo stesso posto. Era una città costruita assai meglio di Tevar. A proposito di Tevar, non sempre era chiaro. A volte ricordava gli urli, i tetti in fiamme, i corpi massacrati e sbudellati di figli e nipoti. A volte non li ricordava. La volontà di sopravvivere era molto forte in lui.

Un rivoletto di altri fuggitivi sciamò entro la città: alcuni giungevano da altre Città Invernali saccheggiate del nord. In tutto c'erano adesso circa trecento individui della razza di Wold nella città dei Nati Lontano. Era così strano essere deboli, essere pochi, vivere della carità dei paria, che alcuni dei tevarani, soprattutto fra gli uomini di mezza età, non poterono sopportarlo. Rimanevano seduti nell'Assenza, con le gambe incrociate, le pupille strette a formare un puntolino minuscolo, come se si fossero strofinati con olio di gesin. Anche alcune delle donne, che avevano visto i loro uomini fatti a pezzi nelle strade e accanto ai focolari di Tevar, o che avevano perso i figli, per il dolore si condussero alla prostrazione o all'Assenza. Ma per Wold il crollo del mondo di Tevar era soltanto una parte del crollo della sua stessa vita. Sapendo di essere già molto avanti nel cammino verso la morte, egli guardava con molta benevolenza a tutti i giorni e a tutti gli uomini più giovani, umani o Nati Lontano: erano loro, quelli che dovevano continuare a combattere.

Il sole adesso splendeva nelle strade di pietra, illuminando le facciate dipinte delle case, sebbene ci fosse una vaga macchia di polvere lungo il cielo, al di sopra delle dune settentrionali. Nella grande piazza, davanti all'edificio chiamato Tiatro, dove erano acquartierati tutti gli umani, Wold venne salutato da un nato Lontano. Gli occorse un certo tempo per riconoscere Jakob Agat. Poi rise un istante e disse: — Alterra! Una volta eri un bel giovanotto. Sembri uno sciamano del Pernmek che si è strappato i denti davanti. Dov'è… — (si era dimenticato il nome) — dov'è la mia congiunta?

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