Fedelmente, l'indomani, prima del levar del sole, Yahan era ad attenderlo nella corte del volo, tenendo alla briglia l'unico destriero rimasto di quanti erano partiti da Hallan, quello dal manto grigio a strisce. Era giunto a Breygna un paio di giorni dopo di loro, affamato e semiassiderato. Adesso era di nuovo lustro e baldanzoso, ringhiava e agitava la lunga coda.
— Hai indossato la Seconda Pelle, Olhor? — domandò Yahan, in un sussurro, mentre affibbiava le cinghie da battaglia intorno alle cosce di Rocannon. — Si dice che gli Stranieri scaglino fuoco contro qualsiasi uomo che si avvicini alle loro terre.
— La indosso.
— E nessuna spada?
— No. Nessuna spada. Ascolta, Yahan, se non dovessi ritornare, guarda nella bisaccia che ho lasciato nella mia camera. Contiene del tessuto, con… segni e dipinti della regione; se qualcuno della mia gente dovesse venire qui, in futuro, ti prego di consegnarlo a lui. E c'è anche la collana. — Aggrottò la fronte e distolse lo sguardo per un attimo. — Donala a Lady Ganye. Se non ritornerò indietro per farlo io. Arrivederci, Yahan; augurami buona fortuna.
— Che il tuo nemico possa morire senza figli — disse Yahan, in tono feroce, con le lacrime agli occhi, e lasciò partire il grifone. L'animale s'innalzò nel cielo caldo e leggermente rosato dell'alba estiva, compì un giro con un ampio, rumoroso battito d'ali, e, facendosi trasportare dal vento del nord, svanì dietro le alture. Yahan rimase fermo a osservare. Da una finestra in cima alla Torre di Breygna, anche un viso dolce e bruno rimase a scrutare per lungo tempo l'orizzonte, dopo che Rocannon fu scomparso e che il sole si fu levato.
Fu uno strano viaggio, quello di Rocannon, diretto verso un luogo che non aveva mai visto, ma che conosceva internamente ed esternamente attraverso le mutevoli impressioni di centinaia di menti diverse. Perché, sebbene il suo nuovo senso mentale non fosse una vera vista, esso forniva sensazioni tattili, la percezione dello spazio e delle relazioni spaziali, del tempo, del moto e della posizione. Prendendo parte a queste sensazioni per ore e ore, in cento giorni di esercizio, mentre sedeva immobile nella sua stanza del Castello di Breygna, Rocannon aveva acquisito una conoscenza esatta, sebbene non visualizzata e non verbalizzata, di ciascun edificio e di ciascuno spazio della base nemica. A partire dalla sensazione diretta, estrapolando da essa, sapeva inoltre che cosa fosse quella base, come entrare al suo interno e dove trovare ciò che cercava.
Ma era molto difficile, dopo il lungo, intenso esercizio, non usare il senso mentale mentre si avvicinava ai nemici: spegnerlo, fermarlo, usando soltanto gli occhi, gli orecchi e l'intelletto. L'incidente sulla montagna gli aveva insegnato che a distanza ravvicinata qualche individuo particolarmente sensibile poteva accorgersi della sua presenza, in modo vago, sotto forma di un presagio o di una premonizione. Egli aveva attirato verso la montagna il pilota dell'elicottero, l'aveva tratto a sé come se l'avesse preso all'amo, anche se probabilmente il pilota non aveva mai compreso che cosa lo spingesse a muoversi in quella direzione, o perché si sentisse costretto ad aprire il fuoco sugli uomini incontrati laggiù. E ora, entrando da solo nella grande base, Rocannon non voleva richiamare su di sé la minima attenzione, assolutamente nessuna, perché si recava laggiù come un ladro nella notte.
Al tramonto aveva lasciato il destriero legato per le redini a un albero, in una radura delle colline, e adesso, dopo qualche ora di cammino, si stava avvicinando al gruppo di edifici che sorgevano davanti a lui, in fondo a un vasto nudo spiazzo di cemento: il campo d'atterraggio dei razzi. Ce n'era soltanto uno, e veniva usato raramente, adesso che tutto il materiale e tutti gli uomini erano arrivati. Non si poteva fare la guerra con astronavi a velocità-luce, quando il più vicino pianeta civile si trovava a otto anni luce di distanza.
La base era grande, spaventosamente grande, vista con i propri occhi, ma la maggior parte dell'area e degli edifici serviva ad alloggiare gli uomini. I ribelli avevano trasportato laggiù quasi tutto il loro esercito. Mentre la Lega perdeva tempo esplorando il loro pianeta natale e occupandolo militarmente, i ribelli avevano puntalo tutto sul pianeta senza nome, data la scarsissima probabilità che qualcuno scoprisse la base segreta, su quel pianeta sconosciuto, perduto fra innumerevoli altri pianeti della Galassia.
Rocannon sapeva che alcuni di quei grandi edifici erano di nuovo vuoti: un contingente di tecnici e di soldati era partito giorni addietro, per occupare, supponeva Rocannon, qualche pianeta che i ribelli avevano conquistato o avevano convinto a unirsi come alleato. I soldati non sarebbero giunti su quel mondo che tra dieci anni. I faradayani erano molto sicuri di sé: evidentemente, la loro guerra procedeva bene. Per minacciare la sicurezza della Lega bastavano una base ben nascosta, e le loro sei possenti armi.
Rocannon aveva scelto una notte in cui, delle quattro lune, soltanto il piccolo asteroide catturato dal pianeta, Heliki, si sarebbe levato prima di mezzanotte. Esso splendeva sulle colline mentre Rocannon si avvicinava a una fila di hangar, che si alzava come una scogliera nera in un mare grigio di cemento, ma nessuno lo vide, ed egli non percepì la presenza di nessuno, nelle immediate vicinanze. Non c'erano reticolati, e gli uomini di guardia erano pochi di numero. La vera sorveglianza veniva effettuata da macchine che scrutavano lo spazio per interi anni luce intorno al sistema di Fomalhaut. Che cosa avevano da temere, in fin dei conti, dagli aborigeni del piccolo pianeta senza nome, che culturalmente erano all'Età del Bronzo?
Heliki aveva raggiunto il massimo splendore quando Rocannon lasciò le ombre della fila di hangar. Ed era a metà della sua fase calante quando raggiunse il suo obbiettivo: le sei astronavi ultra-luce. Erano posate a fianco a fianco, come sei immense uova color dell'ebano, sotto una sorta di grande tenda dai contorni vaghi: una rete mimetica. Intorno alle navi, piccoli come giocattoli, sorgevano alberi sparsi: il bordo della foresta di Viarn.
Ma adesso era giunto il momento di servirsi del suo senso mentale, per rischioso che fosse. Immobile e circospetto, all'ombra di un gruppo di alberi, e cercando allo stesso tempo di mantenere vigili gli occhi e gli orecchi, Rocannon diresse la sua facoltà mentale verso le navi ovoidali, intorno ad esse, al loro interno. A bordo di ciascuna delle sei, aveva appreso quando le aveva esaminate dal castello di Breygna, c'era sempre un pilota, giorno e notte, pronto a portar via la nave in caso di emergenza, per trasferirla probabilmente su Faraday.
Per i sei piloti, «emergenza» significava una cosa soltanto: che la Sala di Controllo, sei chilometri più in là, al confine orientale della base, era stata sabotata o bombardata. In tale caso, il pilota doveva trasportare l'astronave in un luogo sicuro, servendosi dei comandi manuali. Infatti quelle astronavi ultra-luce avevano una cabina di comando come tutte le altre astronavi: serviva a renderle indipendenti da qualsiasi computer e da qualsiasi fonte di alimentazione esterni, che potessero venire colpiti da un eventuale nemico.
Ma far partire l'astronave equivaleva a commettere un suicidio: a un «viaggio» a velocità ultra-luce non sopravviveva alcuna forma di vita. Ogni pilota, quindi non soltanto era un matematico polinomiale altamente addestrato, ma anche un fanatico suicida. Un individuo scelto. Che però, a starsene seduto a fare niente, in attesa di un improbabile momento di gloria, si annoiava come qualsiasi comune mortale.
Quella notte, in una delle astronavi, Rocannon percepì la presenza di due uomini. Entrambi erano profondamente assorti. Tra di loro c'era una superficie piana, suddivisa in quadrati. Già altre volte, nelle notti precedenti, Rocannon aveva ricevuto le stesse impressioni, e la sua mente razionale annotò: «scacchiera», mentre il suo senso materiale si spostava alla nave successiva della fila. Era vuota.