Литмир - Электронная Библиотека
A
A

«Abbiamo finito di scaricare, Moses. Siamo pronti a decollare.»

«Grazie, Loren. Mi piacerebbe restare fino a stasera, ma potrebbe essere pericoloso rimanere a lungo a questa altezza.»

«I tecnici hanno portato delle bombole d’ossigeno, naturalmente.»

«Non pensavo soltanto all’ossigeno. Un mio omonimo una volta ha avuto un mucchio di guai in cima a una montagna.»

«Scusa, ma non capisco.»

«Non importa. È successo moltissimo tempo fa.»

Il veicolo si sollevò sopra l’orlo del cratere e quelli rimasti a terra fecero gesti di saluto. Adesso che avevano scaricato attrezzi ed equipaggiamento, si erano impegnati nell’attività preliminare a ogni iniziativa thalassana, e cioè a preparare il tè.

Loren stette molto attento a salire lentamente, stando alla larga dalle innumerevoli antenne di ogni forma e dimensione. Tutte erano orientate verso le due isole appena visibili in lontananza; se ne avesse interrotta l’emissione, innumerevoli gigabyte di informazioni sarebbero andati perduti, e i Thalassani si sarebbero pentiti di aver chiesto il suo aiuto.

«Non torniamo a Tarna?»

«Un momento solo. Prima voglio dare un’occhiata alla montagna. Ah, ecco!»

«Cosa? Ah sì, capisco, Krakan!»

L’imprecazione thalassana era doppiamente appropriata. Sotto di loro il terreno si apriva in un profondo burrone largo un centinaio di metri. E in fondo a quel burrone vi era l’Inferno.

I fuochi interni di quel giovane pianeta stavano ancora bruciando appena sotto la superficie. Un fiume incandescente, giallo di colore con spruzzi cremisi, si muoveva lento verso il mare. Come potevano esser certi, si chiese Kaldor, che il vulcano non fosse più attivo e non entrasse invece in eruzione da un momento all’altro?

Ma il fiume di lava non era il loro obiettivo. Più in là vi era un piccolo cratere di circa un chilometro di diametro, sull’orlo del quale si scorgeva una torre in rovina. Quando furono più vicini videro che un tempo le torri erano state tre, disposte tutto intorno al cratere, ma che delle altre due restavano soltanto le fondamenta.

Il fondo del cratere era ricoperto da un groviglio di cavi e di lastre metalliche: evidentemente quanto restava della grande antenna radio che un tempo vi sorgeva. Nel centro del cratere vi erano i resti della stazione ricevente e trasmittente, parzialmente sommersi da un laghetto che si era formato a causa dei frequenti acquazzoni.

Il velivolo compì un giro sopra le rovine dell’ultimo collegamento di Thalassa con la Terra, Loren e Kaldor immersi ciascuno nei propri pensieri. Fu Loren a rompere per primo il silenzio.

«È cominciato molto male, ma non dovrebbe essere difficile rimettere in funzione il collegamento. Sagan Due si trova solo a dodici primi a nord, più vicino all’equatore di quanto non fosse la Terra. È più facile puntarvi un’antenna direzionale.»

«Buona idea. Quando avremo finito di mettere insieme il nostro scudo potremo dar loro una mano ad avviare i lavori. Non che abbiano un gran bisogno d’aiuto: non c’è fretta. In fondo dovranno passare quattro secoli prima che ricevano nostre notizie, anche se ci affrettassimo a metterci in contatto appena arrivati.»

Loren terminò di riprendere la scena e prese a discendere lungo il fianco della montagna prima di far rotta verso l’Isola Meridionale. Era sceso di un migliaio di metri quando Kaldor disse perplesso: «Cos’è quel fumo a nord est? Si direbbe un segnale».

Lontano, una sottile colonna bianca s’innalzava contro il cielo azzurro di Thalassa. Certamente pochi minuti prima non c’era.

«Andiamo a dare un’occhiata. Forse è un’imbarcazione in pericolo.»

«Sai cosa mi fa venire in mente?» disse Kaldor.

Loren si strinse nelle spalle.

«Una balena che soffia. Quando salivano alla superficie per respirare, il cetaceo buttava fuori una colonna di vapore acqueo molto simile a quello che vediamo adesso.»

«La tua teoria è interessante ma ha due punti deboli» fece Loren.

«Quella colonna è alta almeno un chilometro. Che razza di balena!»

«È vero. E poi il soffio della balena durava solo qualche secondo, e questo dura da un bel pezzo. Qual è la seconda obiezione?»

«Dalle carte risulta che in quella zona non c’è mare aperto. Quindi, la teoria della barca non sta in piedi.»

«Ma è impossibile… Thalassa è soltanto oceano… Ah, ora capisco.

Laggiù ci sono i Grandi Sargassi Orientali. Sì, siamo proprio ai bordi…

Sembra proprio terraferma.»

Si avvicinavano rapidamente al continente galleggiante fatto di vegetazione marina che copriva gran parte degli oceani di Thalassa e che praticamente forniva tutto l’ossigeno presente nell’atmosfera del pianeta.

Era un’ininterrotta distesa di un verde vivido e quasi violento, all’apparenza solido tanto da poterci camminare sopra. Solo la completa assenza di rilievi ne rivelava la vera natura.

Ma in un’area di circa un chilometro di diametro quella prateria galleggiante non era né piatta né ininterrotta. In quel punto le acque sotto i sargassi sembravano ribollire gettando in aria grandi nubi di vapore e anche ammassi di vegetazione.

«Me n’ero dimenticato» disse Kaldor. «Il Piccolo Krakan.»

«Già» disse Loren. «È la prima volta che è entrato in attività da quando siamo arrivati. È così dunque che sono sorte le altre isole.»

«Sì… L’attività vulcanica si sta spostando verso est. Forse nel giro di qualche migliaio di anni i Thalassani avranno a disposizione tutto un arcipelago.»

Rimasero in zona ancora per qualche minuto; e quindi fecero rotta verso l’Isola Orientale. Molti sarebbero rimasti turbati alla vista di quel vulcano sottomarino che lottava per nascere.

Ma non chi aveva visto la distruzione del Sistema Solare.

23. Il giorno del ghiaccio

Mai lo yacht presidenziale, vale a dire il Traghetto Interisola Numero Uno, era apparso così elegante nei suoi trecento anni di servizio. Non solo era impavesato, ma era stato ridipinto in bianco. Peccato solo che la disponibilità o di vernice o di manodopera si fosse esaurita prima che il lavoro fosse finito, così che il capitano dovette stare attento a gettare le ancore in modo che da terra fosse visibile soltanto il fianco di tribordo.

Anche il presidente Farradine si era preparato per l’occasione: il suo abbigliamento (cui aveva provveduto la signora Farradine) era un incrocio tra la toga di un imperatore romano e la tuta spaziale di un astronauta. Non pareva troppo a suo agio in quel costume; e il capitano Sirdar Bey era felicissimo della sua divisa — calzoni corti bianchi, camicia senza cravatta, spalline e berretto gallonato d’oro — in cui stava comodissimo, sebbene non la indossasse da tempo immemorabile.

Malgrado il presidente avesse mostrato la preoccupante tendenza a inciampare in continuazione nella toga, la crociera ufficiale era andata molto bene, e il modello dell’impianto di produzione del ghiaccio che c’era a bordo aveva funzionato a meraviglia, producendo una gran quantità di cubetti esagonali della misura giusta per entrare nei bicchieri delle bibite.

Ma non si poteva rimproverare ai visitatori che i Thalassani non comprendessero fino in fondo quanto era appropriato il nome in codice «Fiocco di Neve»; in fin dei conti, erano pochissimi quelli che su Thalassa avevano visto la neve.

E ora, lasciato il modellino sulla nave, toccava all’impianto vero e proprio, che occupava diversi ettari di spiaggia vicino a Tarna. C’era voluto un po’ di tempo per trasportare il presidente e il suo entourage, il capitano Bey e i suoi ufficiali, e infine tutti gli altri ospiti, dallo yacht a riva. Ora, all’ultima luce del giorno, tutti costoro osservavano rispettosamente un blocco di ghiaccio di forma esagonale largo venti metri e spesso due. Non solo era il blocco più grosso che chiunque avesse mai visto, ma anche la quantità di ghiaccio più grande esistente su tutto il pianeta. Raramente il ghiaccio aveva modo di formarsi, anche ai Poli Senza grandi masse continentali che fossero d’ostacolo alla circolazione delle acque, le veloci correnti provenienti dalle regioni equatoriali scioglievano rapidamente i ghiacci polari non appena essi si formavano.

25
{"b":"109761","o":1}