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Indossava calzoni corti e aveva un asciugamano gettato sulle spalle nude.

Vedendolo, Mirissa impallidì.

«Avrai battuto tutti come al solito» disse Kaldor. «Non finisci per annoiarti?»

Loren fece una smorfia.

«Alcuni giovani Thalassani mi sembrano promettere bene. Uno mi ha battuto di tre punti. Giocavo con la mano sinistra, naturalmente.»

«Nel caso improbabile che non gliel’abbia già detto» disse Kaldor a Mirissa «Loren era campione mondiale di ping pong.»

«Adesso non esagerare, Moses. Ero sì e no il quinto in graduatoria, e verso la fine non c’erano grandi campioni. Un qualsiasi Cinese del Terzo Millennio mi avrebbe battuto come niente.»

«Perché non fai vedere a Brant come si fa?» fece maliziosamente Kaldor. «Potrebbe essere interessante.»

Vi fu un breve silenzio. Poi Loren rispose con una certa sufficienza:

«No, c’è troppa disparità».

«E invece è Brant che vuol far vedere a lei una cosa, capitano Lorenson» intervenne Mirissa.

«Davvero?»

«Lei ha detto di non essere mai salito su una barca.»

«È vero.»

«Allora ha un appuntamento con Brant e Kumar al Molo Tre alle otto e mezzo di domattina.»

«Credi che debba correre il rischio?» Loren chiese con scherzosa serietà a Kaldor. «Non so nuotare.»

«Non preoccuparti» disse Kaldor incoraggiante. «Anche se hanno intenzione di farti fare un viaggio di sola andata, non cambierà nulla.»

18. Kumar

Una soltanto era la tragedia che gettava un’ombra sui diciotto anni di vita di Kumar Leonidas: sarebbe sempre stato dieci centimetri più basso di quanto avrebbe voluto. Non sorprendeva che fosse soprannominato «Piccolo Leone», sebbene ben pochi osassero chiamarlo così in sua presenza.

Per compensare la sua bassa statura, Kumar aveva fatto di tutto per svilupparsi in larghezza e robustezza. Molte volte Mirissa gli aveva detto, a metà tra divertita ed esasperata: «Kumar, se tu ti dedicassi a sviluppare il cervello così come fai col corpo, diventeresti il massimo genio di Thalassa». Non gli aveva invece mai detto — e anzi solo con riluttanza l’ammetteva di fronte a se stessa — che, vedendo il fratello mentre faceva ginnastica la mattina, provava spesso sensazioni pochissimo sororali, nonché una certa invidia per quelli che convenivano ad ammirarlo. Tra costoro andavano annoverati, in diverse riprese, in pratica tutti i coetanei di Kumar. Correva voce che Kumar avesse fatto l’amore con tutte le ragazze e metà dei ragazzi di Tarna: era un’esagerazione, certamente, ma che conteneva un fondamento di verità.

Tuttavia Kumar, malgrado la sorella gli fosse intellettualmente molto superiore, non era un imbecille tutto muscoli e niente cervello. Se qualcosa lo interessava per davvero, non si dava pace finché non padroneggiava a fondo l’oggetto del suo interesse. Era un magnifico marinaio, e aveva dedicato due anni a costruire, con l’aiuto occasionale di Brant, uno splendido kaiak di quattro metri. La chiglia era finita, ma ancora non aveva cominciato a lavorare al ponte.

Un giorno, si era ripromesso, l’avrebbe varato, e allora nessuno avrebbe più osato ridere. Nel frattempo, l’espressione «il kaiak di Kumar» aveva finito per significare, per gli abitanti di Tarna, un lavoro lasciato a metà — cosa di cui, invero, vi erano in giro parecchi esempi.

A parte questa tendenza a rimandare le cose al domani, comune a tutti i Thalassani, il carattere di Kumar presentava alcuni difetti, i principali dei quali erano un temperamento avventuroso e la tendenza a far scherzi certe volte abbastanza pericolosi. Era opinione diffusa che questi difetti avrebbero finito, una volta o l’altra, per metterlo nei guai.

Tuttavia non si poteva volergliene a lungo nemmeno per gli scherzi più terribili, perché erano sempre fatti senza malizia alcuna. Era un ragazzo apertissimo, fin trasparente; era impensabile, ad esempio, che Kumar dicesse una bugia. Per questo motivo gli si perdonavano molte cose.

L’arrivo degli stranieri era stato, naturalmente, l’avvenimento più eccitante della sua vita. Lo affascinavano le loro macchine, le registrazioni audiovisive e sensoriali che essi avevano portato, le storie che narravano, tutto degli stranieri lo affascinava. E poiché degli stranieri frequentava soprattutto Loren, non ci fu nulla di strano che gli si affezionasse.

Ma Loren non era del tutto soddisfatto della piega che avevano preso gli avvenimenti. Kumar con la sua continua presenza non si limitava a infastidirlo un poco; diventava un terzo incomodo, un fratello minore importuno di cui era impossibile liberarsi.

19. La Bella Polly

«Davvero non riesco a crederci, Loren» disse Brant Falconer. «Davvero non sei mai stato su una barca o su una nave?»

«Mi pare di ricordare che quand’ero piccolo una volta ho attraversato un laghetto con un canotto di gomma. Avrò forse avuto cinque anni.»

«Allora vedrai che ti piacerà. Il mare è calmo, e lo stomaco non ti darà fastidio. E magari riusciremo anche a convincerti a immergerti con noi.»

«Questo no, grazie… Preferisco fare un’esperienza alla volta. E ho imparato a rimanere fuori dai piedi quando gli altri stanno lavorando.»

Brant aveva ragione, pensò Loren, comincia davvero a piacermi. Il piccolo trimarano si dirigeva verso la barriera corallina spinto dagli idrogetti silenziosi. Eppure, appena salito a bordo, quando aveva visto allontanarsi la terraferma aveva provato un attimo di panico.

Solo la paura del ridicolo gli aveva evitato di fare una figuraccia. Aveva percorso cinquanta anni luce — la distanza più lunga mai coperta dall’uomo — per arrivare su quel mondo. E ora si preoccupava perché qualche centinaio di metri lo separavano dalla terraferma.

Era una sfida, e una sfida che non poteva rifiutare. Stando a poppa e guardando Falconer alla barra (come aveva fatto a procurarsi la cicatrice bianca che gli vedeva sulla schiena? Ah, sì, aveva parlato di una caduta col minialiante, anni prima…), si chiese cosa stesse pensando in quel momento il Thalassano.

Difficile credere che una civiltà umana, anche la più illuminata e liberale, ignorasse la gelosia o una qualsiasi forma di possessività sessuale.

Non che ci fossero, purtroppo! grandi cose di cui Brant potesse essere geloso.

Loren si disse che con Mirissa aveva scambiato sì e no un centinaio di parole, e per la maggior parte in presenza del marito di lei. No, il termine era inesatto: su Thalassa si parlava di marito e moglie solo dopo la nascita del primo figlio. Se nasceva un maschio, la madre di solito — ma non sempre — assumeva il cognome del padre. Se nasceva invece una femmina, era questa che prendeva il cognome della madre, almeno fino alla nascita del secondo e ultimo figlio.

Ben poche erano le cose che turbavano i Thalassani. Una di queste era la crudeltà, soprattutto se esercitata nei confronti dei bambini. Un’altra era, su quel mondo che aveva soltanto ventimila chilometri quadrati di terre emerse, una terza gravidanza.

Il tasso di mortalità infantile era così basso che bastavano i parti multipli a mantenere stabile la popolazione. C’era stato un caso — uno solo, rimasto famoso, in tutta la storia di Thalassa — di una madre che per ben due volte aveva dato alla luce cinque gemelli. La donna non ne aveva colpa alcuna, certo, ma la figura di lei aveva egualmente finito per assumere quell’aura di deliziosa depravazione che può circondare una Lucrezia Borgia, una Messalina o una Faustina.

Dovrò stare molto, molto attento a giocare le mie carte, si disse Loren.

Che Mirissa si sentisse attratta da lui, lo sapeva. Lo capiva dall’espressione del volto, dal tono della voce. E un’altra conferma gli veniva le volte che le loro mani o i loro corpi si erano accidentalmente sfiorati, e il contatto era durato un istante di più dello stretto necessario.

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