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Pinocchio andò di corsa a casa dell'ortolano Giangio: ma l'ortolano gli disse:

— Quanto ne vuoi del latte?

— Ne voglio un bicchiere pieno.

— Un bicchiere di latte costa un soldo. Comincia intanto dal darmi il soldo.

— Non ho nemmeno un centesimo — rispose Pinocchio tutto mortificato e dolente.

— Male, burattino mio — replicò l'ortolano. - Se tu non hai nemmeno un centesimo, io non ho nemmeno un dito di latte.

— Pazienza! — disse Pinocchio, e fece l'atto di andarsene.

— Aspetta un po' — disse Giangio. - Fra te e me ci possiamo accomodare. Vuoi adattarti a girare il bindolo?

— Che cos'è il bindolo?

— Gli è quell'ordigno di legno, che serve a tirar su l'acqua dalla cisterna per annaffiare gli ortaggi.

— Mi proverò…

— Dunque, tirami su cento secchie d'acqua, e io ti regalerò in compenso un bicchiere di latte.

— Sta bene. -

Giangio condusse il burattino nell'orto e gl'insegnò la maniera di girare il bindolo. Pinocchio si pose subito al lavoro; ma prima di aver tirato su le cento secchie d'acqua, era tutto grondante di sudore dalla testa ai piedi. Una fatica a quel modo non l'aveva durata mai.

— Finora questa fatica di girare il bindolo — disse l'ortolano — l'ho fatta fare al mio ciuchino: ma oggi quel povero animale è in fin di vita.

— Mi menate a vederlo? — disse Pinocchio.

— Volentieri. -

Appena che Pinocchio fu entrato nella stalla vide un bel ciuchino disteso sulla paglia, rifinito dalla fame e dal troppo lavoro. Quando l'ebbe guardato fisso fisso, disse dentro di sé, turbandosi:

— Eppure quel ciuchino lo conosco! Non mi è fisonomia nuova! -

E chinatosi fino a lui, gli domandò in dialetto asinino:

— Chi sei?-

A questa domanda, il ciuchino aprì gli occhi moribondi, e rispose balbettando nel medesimo dialetto:

— Sono Lu… ci… gno… lo… -

E dopo richiuse gli occhi e spirò.

— Oh! povero Lucignolo! — disse Pinocchio a mezza voce: e presa una manciata di paglia, si rasciugò una lacrima che gli colava giù per il viso.

— Ti commuovi tanto per un asino che non ti costa nulla? — disse l'ortolano. - Che cosa dovrei far io che lo comprai a quattrini contanti?

— Vi dirò… era un mio amico!…

— Tuo amico?

— Un mio compagno di scuola!…

— Come?! — urlò Giangio dando in una gran risata. - Come?! avevi dei somari per compagni di scuola?… Figuriamoci i begli studi che devi aver fatto!… -

Il burattino, sentendosi mortificato da quelle parole, non rispose: ma prese il suo bicchiere di latte quasi caldo, e se ne tornò alla capanna.

E da quel giorno in poi, continuò più di cinque mesi a levarsi ogni mattina, prima dell'alba, per andare a girare il bindolo, e guadagnare così quel bicchiere di latte, che faceva tanto bene alla salute cagionosa del suo babbo. Né si contentò di questo: perché a tempo avanzato, imparò a fabbricare anche i canestri e i panieri di giunco: e coi quattrini che ne ricavava, provvedeva con moltissimo giudizio a tutte le spese giornaliere. Fra le altre cose, costruì da sé stesso un elegante carrettino per condurre a spasso il suo babbo nelle belle giornate, e per fargli prendere una boccata d'aria.

Nelle veglie poi della sera, si esercitava a leggere e a scrivere. Aveva comprato nel vicino paese per pochi centesimi un grosso libro, al quale mancavano il frontespizio e l'indice, e con quello faceva la sua lettura. Quanto allo scrivere, si serviva di un fuscello temperato a uso penna; e non avendo né calamajo né inchiostro, lo intingeva in una boccettina ripiena di sugo di more e di ciliege.

Fatto sta, che con la sua buona volontà d'ingegnarsi, di lavorare e di tirarsi avanti, non solo era riuscito a mantenere quasi agiatamente il suo genitore sempre malaticcio, ma per di più aveva potuto mettere da parte anche quaranta soldi per comprarsi un vestitino nuovo.

Una mattina disse a suo padre:

— Vado qui al mercato vicino, a comprarmi una giacchettina, un berrettino e un pajo di scarpe. Quando tornerò a casa — soggiunse ridendo — sarò vestito così bene, che mi scambierete per un gran signore. -

E uscito di casa, cominciò a correre tutto allegro e contento. Quando a un tratto sentì chiamarsi per nome: e voltandosi, vide una bella lumaca che sbucava fuori dalla siepe.

— Non mi riconosci? — disse la Lumaca.

— Mi pare e non mi pare…

— Non ti ricordi di quella Lumaca, che stava per cameriera con la Fata dai capelli turchini? non ti rammenti di quella volta, quando scesi a farti lume e che tu rimanesti con un piede confitto nell'uscio di casa?

— Mi rammento di tutto — gridò Pinocchio. - Rispondimi subito, Lumachina bella: dove hai lasciato la mia buona Fata? che fa? mi ha perdonato? si ricorda sempre di me? mi vuol sempre bene? è molto lontana di qui? potrei andare a trovarla? -

A tutte queste domande, fatte precipitosamente e senza ripigliar fiato, la Lumaca rispose con la sua solita flemma:

— Pinocchio mio! La povera Fata giace in un fondo di letto allo spedale!…

— Allo spedale?…

— Pur troppo. Colpita da mille disgrazie, si è gravemente ammalata, e non ha più da comprarsi un boccon di pane.

— Davvero?… Oh! che gran dolore che mi hai dato! Oh! povera Fatina! povera Fatina! povera Fatina!… Se avessi un milione, correrei a portarglielo… Ma io non ho che quaranta soldi… eccoli qui: andavo giusto a comprarmi un vestito nuovo. Prendili, Lumaca, e va' a portarli subito alla mia buona Fata.

— E il tuo vestito nuovo?…

— Che m'importa del vestito nuovo? Venderei anche questi cenci che ho addosso, per poterla ajutare! Va', Lumaca, e spicciati: e fra due giorni ritorna qui, ché spero di poterti dare qualche altro soldo. Finora ho lavorato per mantenere il mio babbo: da oggi in là, lavorerò cinque ore di più per mantenere anche la mia buona mamma. Addio, Lumaca, e fra due giorni ti aspetto. -

La Lumaca, contro il suo costume, cominciò a correre come una lucertola nei grandi solleoni d'agosto.

Quando Pinocchio tornò a casa, il suo babbo gli domandò:

— E il vestito nuovo?

— Non m'è stato possibile di trovarne uno che mi tornasse bene. Pazienza!… Lo comprerò un'altra volta. -

Quella sera Pinocchio, invece di vegliare fino alle dieci, vegliò fino alla mezzanotte sonata: e invece di far otto canestri di giunco, ne fece sedici.

Poi andò a letto e si addormentò. E nel dormire, gli parve di vedere in sogno la Fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo avergli dato un bacio, gli disse così:

— «Bravo Pinocchio! In grazia del tuo buon cuore, io ti perdono tutte le monellerie che hai fatto fino a oggi. I ragazzi che assistono amorosamente i propri genitori nelle loro miserie e nelle loro infermità, meritano sempre gran lode e grande affetto, anche se non possono esser citati come modelli d'ubbidienza e di buona condotta. Metti giudizio per l'avvenire, e sarai felice». -

A questo punto il sogno finì, e Pinocchio si svegliò con tanto d'occhi spalancati.

Ora immaginatevi voi quale fu la sua meraviglia quando, svegliandosi, si accòrse che non era più un burattino di legno: ma che era diventato, invece, un ragazzo come tutti gli altri. Dètte un'occhiata all'intorno e invece delle solite pareti di paglia della capanna, vide una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante. Saltando giù dal letto, trovò preparato un bel vestiario nuovo, un berretto nuovo e un pajo di stivaletti di pelle, che gli tornavano una vera pittura.

Appena si fu vestito, gli venne fatto naturalmente di mettere le mani nelle tasche e tirò fuori un piccolo portamonete d'avorio, sul quale erano scritte queste parole: «La Fata dai capelli turchini restituisce al suo caro Pinocchio i quaranta soldi e lo ringrazia tanto del suo buon cuore.» Aperto il portafoglio, invece dei 40 soldi di rame, vi luccicavano quaranta zecchini d'oro, tutti nuovi di zecca.

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