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Nel marzo 2005 fu impressionante la potenza di fuoco ritrovata a Sant'Anastasia, paese alle falde del Vesuvio. Una scoperta avvenuta un po' per caso, un po' per indisciplina dei trafficanti che iniziarono a pestarsi per strada perché committenti e trasportatori non si erano accordati sui prezzi. Quando arrivarono i carabinieri smontarono i pannelli all'interno del furgoncino, fermo vicino alla scazzottata, trovando una delle più grandi santabarbare mobili che si siano mai viste. Mitragliatrici Uzi complete di quattro serbatoi, sette caricatori e centododici proiettili calibro 380, mitragliatori di origine russa e ceca capaci di sparare a raffica novecentocinquanta colpi al minuto. Seminuove, ben oliate, la matricola intatta, le mi-tragliette erano appena arrivate da Cracovia. Novecentocinquanta colpi al minuto era il potere di fuoco degli elicotteri americani in Vietnam. Armi che avrebbero sventrato divisioni di uomini e di cingolati, e non batterie di fuoco di famiglie camorriste del vesuviano. La potenza delle armi diviene così l'ennesima possibilità di raccogliere le leve del potere reale del Leviatano che impone l'autorità in nome della sua violenza potenziale. Nelle armerie vengono trovati bazooka, bombe a mano, mine anticarro, mitragliatori, ma risultano essere usati esclusivamente kalashnikov, mitra Uzi e pistole automatiche e semiautomatiche. Il resto fa parte della dotazione da utilizzare nella costruzione della propria potenza militare, da mostrare sul campo. Con queste potenzialità belliche, i clan non si contrappongono alla violenza legittima dello Stato, ma tendono a monopolizzare loro la violenza. In Campania non c'è alcuna ossessione alla tregua, come quella dei vecchi clan di Cosa Nostra. Le armi sono l'estensione diretta delle dinamiche di assestamento dei capitali e dei territori, il mischiarsi di gruppi di potere emergenti e di famiglie concorrenti. È come se possedessero in esclusiva il concetto di violenza, la carne della violenza, gli strumenti della violenza. La violenza diviene un loro territorio, esercitarla significa addestrarsi al loro potere, al potere del Sistema. I clan hanno persino creato nuove armi disegnate, progettate e realizzate direttamente dagli affiliati. A Sant'Antimo — a nord di Napoli — nel 2004 gli agenti di polizia trovarono nascosto in una buca scavata nel terreno e poi coperta da fasci di erbaccia un fucile strano, avvolto in un telo di cotone impregnato d'olio. Una sorta di micidiale fucile fai da te che sul mercato si trova a un prezzo di duecentocinquanta euro: nulla, paragonato a una semiautomatica che ha un prezzo medio di duemilacinquecento euro. H fucile dei clan è formato da un incastro di due tubi che possono viaggiare separati, una volta assemblati però divengono un micidiale fucile a canne mozze caricato a cartucce o a pallettoni. Progettato sul modello di un vecchio fucile giocattolo degli anni '80 che sparava palline da ping pong se si tirava violentemente il calcio e lasciava scattare una molla all'interno. Uno di quei fucili giocattolo come il "pimpamperi" che hanno addestrato migliaia di bambini italiani nelle guerre da salotto. Ma da lì, proprio da quei modelli giocattolo proviene quello che qui chiamano solo "'o tubo". E composto da due tubi, il primo di diametro più grande e lungo una quarantina di centimetri con una impugnatura.

Dentro è saldata una grossa vite metallica, la cui punta funge da otturatore. La seconda parte è costituita da un tubo che ha un diametro inferiore, capace di contenere una cartuccia calibro 20, e una impugnatura laterale. Incredibilmente semplice e terribilmente potente. Questo fucile aveva come vantaggio quello di non creare complicanze dopo l'utilizzo: non è necessario fuggire e distruggere le armi dopo l'agguato. Basta smontarlo e il fucile diviene soltanto un tubo spezzato in due, innocuo a ogni eventuale perquisizione.

Prima del sequestro, sentii parlare di questo fucile da un povero cristo, un pastore, uno di quegli emaciati contadini italiani che ancora si aggirano, col loro gregge, per le campagne che circoscrivono i viadotti autostradali e i casermoni di periferia. Spesso questo pastore trovava le sue pecore divise in due, spaccate piuttosto che tagliate, questi corpi magrissi-mi di pecore napoletane dal cui manto si vedono persino le costole, che masticano erba pregna di diossina che fa marcire i denti e ingrigire la lana. Il pastore credeva fosse un'avvisaglia, una provocazione dei suoi miserabili concorrenti di greggi malati. Non capiva. In realtà i fabbricanti del tubo provavano su animali leggeri la potenza del colpo. Le pecore erano il bersaglio migliore per capire nell'immediato la forza dei proiettili e la qualità dell'arma. Lo si comprendeva da quanto l'impatto le faceva capovolgere e spezzare in due nell'aria come bersagli di un videogame.

La questione delle armi è tenuta nascosta nel budello dell'economia, chiusa in un pancreas di silenzio. L'Italia spende in armi ventisette miliardi di dollari. Più soldi della Russia, il doppio di Israele. La classifica l'ha stesa l'Istituto internazionale di Stoccolma per la ricerca sulla pace, il SIPRI. Se a questi dati dell'economia legale si aggiunge che secondo I'EURISPES tre miliardi e trecento milioni è il business delle armi in mano a camorra, 'ndrangheta, Cosa Nostra e Sacra Corona Unita gestiscono, significa che seguendo l'odore delle armi che Stato e clan gestiscono si arriva ai tre quarti delle armi che circolano in mezzo mondo. H cartello dei Casalesi è in assoluto il gruppo imprenditorial-criminale capace di fornire sul piano internazionale referenti non solo di gruppi, ma di interi eserciti. Durante la guerra anglo-argentina del 1982, la guerra delle Falkland, l'Argentina visse il suo periodo di isolamento economico più cupo. Così la camorra entrò in affari con la difesa argentina divenendo l'imbuto attraverso cui far discendere le armi che nessuno le avrebbe venduto ufficialmente. I clan si erano equipaggiati per una lunga guerra, invece il conflitto era iniziato a marzo e a giugno già se ne vedeva la conclusione. Pochi colpi, pochi morti, pochi consumi. Una guerra che serviva più ai politici che agli imprenditori, più alla diplomazia che all'economia. Ai clan casertani non conveniva svendere per accaparrarsi un guadagno immediato. Il giorno stesso in cui venne decretata la fine del conflitto fu intercettata dai servizi segreti inglesi, una telefonata intercontinentale tra l'Argentina e San Cipriano d'Aversa. Due sole frasi, sufficienti però a comprendere la potenza delle famiglie casertane e la loro capacità diplomatica:

"Pronto?"

"Sì."

"Qua la guerra è finita, mo che dobbiamo fare?"

"Nun te preoccupa', un'altra guerra ci sarà…"

La saggezza del potere possiede una pazienza che spesso gli imprenditori più abili non hanno. I Casalesi nel 1977 avevano trattato l'acquisto di carri armati, i servizi segreti italiani segnalarono che un Leopard smontato e pronto per essere spedito, si trovava alla stazione di Villa Literno. Il commercio dei carri armati Leopard è stato a lungo mercato gestito dalla camorra. Nel febbraio del 1986 venne intercettata una telefonata dove esponenti del clan dei Nuvoletta trattavano l'acquisto di alcuni Leopard con l'allora Germania dell'Est. Anche con l'avvicendarsi dei capi, i Casalesi rimasero sul piano internazionale referenti non solo di gruppi ma di interi eserciti. Un'informativa del SISMI e del centro di controspionaggio di Verona del 1994 segnala che Zeljco Raznatovie, meglio conosciuto come la "tigre Arkan", ebbe rapporti con Sandokan Schiavone, capo dei Casalesi. Arkan fu fatto fuori nel 2000 in un albergo di Belgrado. È stato uno dei criminali di guerra serbi più spietati, capace con le sue incursioni di radere al suolo i paesi musulmani della Bosnia, fondatore di un gruppo nazionalista, i "Volontari della Guardia Serba". Le due tigri si allearono. Arkan chiese armi per i suoi guerriglieri, e soprattutto la possibilità di aggirare l'embargo imposto alla Serbia, facendo entrare capitali e armi sotto forma di aiuti umanitari: ospedali da campo, medicinali e attrezzature mediche. Secondo il SISMI però le forniture — del valore complessivo di svariate decine di milioni di dollari — erano in realtà pagate dalla Serbia mediante prelievi dai propri depositi presso una banca austriaca, ammontanti a ottantacinque milioni di dollari. Quei soldi venivano poi girati a un ente alleato dei clan serbi e campani, che avrebbe dovuto provvedere a ordinare alle varie industrie interessate i beni da dare come aiuto umanitario, pagando con soldi provenienti da attività illecite, e attuando così il riciclaggio degli stessi capitali. E proprio in questo passaggio entrano in scena i clan Casalesi. Sono loro ad aver messo a disposizione le ditte, i trasporti, i beni per effettuare l'operazione di riciclaggio. Servendosi dei suoi intermediari Arkan, secondo le informative, chiese l'intervento dei Casalesi per mettere a tacere i mafiosi albanesi che avrebbero potuto rovinare la sua guerra finanziaria, attaccando da sud o bloccando il commercio di armi. I Casalesi calmarono i loro alleati albanesi, dando armi e concedendo ad Arkan una serena guerriglia. In cambio aziende, imprese, negozi, masserie, allevamenti furono acquistati dagli imprenditori del clan a ottimo prezzo e l'impresa italiana si disseminò in mezza Serbia. Prima di entrare nel fuoco della guerra, Arkan ha interpellato la camorra. Le guerre, dal Sud America ai Balcani, si fanno con gli artigli delle famiglie campane.

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