Cemento armato
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Mancavo da Casal di Principe da molto. Se per le arti marziali la patria era considerata il Giappone, per il surf l'Australia, per i diamanti la Repubblica della Sierra Leone, per il potere imprenditoriale della camorra è Casal di Principe la capitale. Nella provincia napoletana e casertana il solo provenire da Casale era come una sorta di garanzia di immunità, significava essere più di se stesso, come direttamente emanato dalla ferocia dei gruppi criminali casertani. Si godeva di un rispetto garantito, di una sorta di timore naturale. Persino Benito Mussolini aveva voluto eliminare questo marchio di provenienza, quest'aura criminale, e aveva ribattezzato i due comuni di San Cipriano d'Aversa e Casal di Principe col nome di Albanova. Per inaugurare una nuova alba di giustizia, mandò anche decine di carabinieri incaricati di risolvere il problema "col ferro e col fuoco". Oggi del nome Albanova non rimane che la stazione rugginosa di Casale.
Puoi aver dato pugni al sacco per ore, aver passato pomeriggi sotto un bilanciere a pressare i pettorali, esserti ingollato blister e blister di pillole che fanno gonfiare i muscoli, ma davanti a un accento giusto, davanti a un gesticolare forte, è come se tutti i corpi a terra coperti dai lenzuoli si materializzassero. Ci sono vecchi modi di dire in questi luoghi che riescono a sintetizzare bene la carica letale di certa mitologia violenta: "Camorristi si diventa, ma casalesi si nasce". Oppure quando si litiga, quando ci si sfida con gli sguardi, un attimo prima di prendersi a cazzotti o a coltellate si rende chiara la propria visione di vita: "Vita e morte per me è 'a stessa cosa!". A volte la propria origine, il proprio paese di provenienza possono fare comodo, si possono usare come elemento di fascino, lasciarsi confondere volentieri con l'immagine di violenza, utilizzarli come intimidazione dissimulata. Puoi avere sconti al cinema e credito presso qualche commessa paurosa. Ma capita anche che il tuo paese d'origine ti dia una carica pregiudiziale troppo forte e non vuoi neanche stare lì a dire che non tutti sono affiliati, non tutti sono criminali, che i camorristi sono una minoranza, e prendi una scorciatoia correndo con la mente a un paese vicino, più anonimo, che possa allontanare accostamenti tra te e i criminali: Secondigliano diviene genericamente Napoli, Casal di Principe, Aversa o Caserta. Ci si vergogna o si è orgogliosi a seconda del gioco, a seconda del momento, della situazione, come un vestito, ma che è lui a decidere quando indossarti.
Corleone, in confronto a Casal di Principe, è una città progettata da Walt Disney. Casal di Principe, San Cipriano d'A-versa, Casapesenna. Un territorio con meno di centomila abitanti, ma con milleduecento condannati per 416 bis, il reato di associazione mafiosa, e un numero esponenziale di indagati e condannati per concorso esterno in associazione mafiosa. Questa terra subisce da tempo infinito il peso delle famiglie camorriste, una borghesia violenta e feroce che possiede nel clan la sua avanguardia più cruenta e potente. Il clan dei Casalesi — che prende il nome proprio da Casal di Principe — è una confederazione che riunisce in sé in un rapporto di autonomia federativa tutte la famiglie camorristiche del casertano: da Castelvolturno, Villa Literno, Gricignano, San Tammaro, Cesa, sino a Villa di Briano, Mondragone, Carinola, Marcianise, San Nicola La Strada, Calvi Risorta, Lasciano e altre decine e decine di paesi. Ciascuno con il suo capozona, ciascuno inquadrato nella rete dei Casalesi. Il capostipite delle famiglie Casalesi, Antonio Bardellino, era stato il primo in Italia a comprendere che sul lungo termine la cocaina avrebbe di gran lunga soppiantato l'eroina. Eppure per Cosa Nostra e molte famiglie di camorra, l'eroina continuava a essere la merce principale. Gli eroinomani venivano visti come vere e proprie casseforti, mentre la coca negli anni '80 aveva la caratteristica di essere una droga d'elite. Antonio Bardellino aveva compreso però che il grande mercato sarebbe stato di una droga capace di non massacrare in breve tempo, in grado di essere come un aperitivo borghese e non un veleno da reietti. Creò così una ditta di import-export di farina di pesce che esportava dal Sud America e importava nell'aversano. Farina di pesce che nascondeva tonnellate di coca. L'eroina che trattava, Bardellino la smerciava anche in America mandandola a John Gotti, inserendo la droga nei filtri di macchine per il caffè espresso. Una volta sessantasette chili di eroina vennero intercettati dalla narcotici americana, ma per il boss di San Cipriano d'Aversa non fu una disfatta. Fece telefonare a Gotti pochi giorni dopo: "Adesso ne mandiamo il doppio con altri mezzi". Dall'agro aversano nacque il cartello che seppe opporsi a Cutolo e la ferocia di quella guerra è ancora presente nel codice genetico dei clan casertani. Negli anni '80 le famiglie cutoliane vennero eliminate con poche operazioni militari, ma di potenza violentissima. I Di Matteo, quattro uomini e quattro donne, vennero massacrati in pochi giorni. I Casalesi lasciarono vivo solo un bambino di otto anni. I Simeone invece furono uccisi in sette, quasi tutti contemporaneamente. Al mattino la famiglia era viva, presente e potente, la notte stessa era scomparsa. Massacrata. A Ponte Annicchino — nel marzo dell'82 — i Casalesi posizionarono su una collina una mitraglietta da campo, di quelle usate nelle trincee, e spararono massacrando quattro cutoliani.
Antonio Bardellino era affiliato a Cosa Nostra, legato a Ta-no Badalamenti, sodale e amico di Tommaso Buscetta, con cui aveva diviso una villa in Sud America. Quando i Corleo-nesi spazzarono il potere di Badalamenti-Buscetta tentarono di eliminare anche Bardellino, ma senza successo. I siciliani, durante la prima fase di ascesa della Nuova Camorra Organizzata, tentarono di eliminare anche Raffaele Cutolo. Mandarono un killer, Mimmo Bruno, con un traghetto da Palermo, ma questi venne ucciso appena messo piede fuori dal porto. Cosa Nostra ha avuto nei confronti dei Casalesi sempre una sorta di rispetto e soggezione, ma quando, nel 2002, i Casalesi uccisero Raffaele Lubrano — boss di Pignataro Maggiore vicino Capua — uomo affiliato a Cosa Nostra, combinato direttamente da Totò Runa, in molti temevano lo scoppio di una faida. Ricordo che il giorno dopo l'agguato un giornalaio, vendendo il quotidiano locale, si rivolse al cliente biascicando tra i denti i suoi timori:
"Mo se vengono a combattere pure i siciliani perdiamo la pace per tre anni."
"Quali siciliani? I manosi?"
"Sì, i mafiosi."
"Quelli si devono inginocchiare davanti ai Casalesi e succhiare. Solo questo devono fare, zucare tutto e basta."
Una delle dichiarazioni che più mi avevano sconvolto sui mafiosi siciliani l'aveva rilasciata Cannine Schiavone, pentito del clan dei Casalesi, in un'intervista del 2005. Parlava di Cosa Nostra come di un'organizzazione schiava dei politici, incapace di ragionare in termini di affari, come invece facevano i camorristi casertani. Per Schiavone la mafia voleva porsi come anti-Stato, e questo non era un discorso da imprenditori. Non esiste il paradigma Stato-anti Stato. Ma solo un territorio in cui si fanno affari: con, attraverso e senza lo Stato:
Noi vivevamo con lo Stato. Per noi lo Stato doveva esistere e doveva essere quello Stato che c'era, solo che noi avevamo una filosofia diversa dai siciliani. Mentre Runa usciva da un isolamento isolano, da montagna, vecchio pecoraio insomma, noi avevamo superato questi limiti, noi volevamo vivere con lo Stato. Se qualcuno nello Stato ci faceva ostruzionismo, ne trovavamo un altro disposto a favorirci.
Se era un politico non lo votavamo, se era uno delle istituzioni si trovava il metodo per raggirare.
Carmine Schiavone, cugino del boss Sandokan, fu il primo a scoperchiare gli affari del clan dei Casalesi. Quando scelse di collaborare con la giustizia, sua figlia Giuseppina gli lanciò una terribile condanna, forse persino più letale di una condanna a morte. Scrisse infatti parole di fuoco ad alcuni giornali: