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Quando guardo i ritratti di Michail Kalashnikov penso sempre ad Alfred Nobel, famoso per il premio omonimo, ma in realtà padre della dinamite. Le foto di Nobel negli anni successivi alla realizzazione della dinamite — dopo che comprese l'uso che avrebbero fatto della sua miscela di nitroglicerina e argilla — lo ritraggono devastato dall'ansia, con le dita che tormentano la barba. Sarà forse una mia suggestione, ma quando guardo le foto di Nobel, le sopracciglia tirate in alto e gli occhi persi, sembrano dire un'unica cosa: "Non volevo. Intendevo aprire le montagne, sbriciolare massi, creare gallerie. Non volevo tutto quello che è accaduto". Kalashnikov ha invece sempre un'aria serena, di vecchio pensionato russo, con tanti ricordi per la testa. Te lo immagini con l'alito di vodka a raccontarti di qualche amico con cui ha vissuto il tempo della guerra, o mentre a tavola ti bisbiglia che da giovane riusciva a resistere a letto ore senza fermarsi mai. Sempre nel gioco infantile delle suggestioni, la faccia di Michail Kalashnikov sembra dire "Va tutto bene, non sono problemi miei, ho solo inventato un mitra. Come lo usano gli altri non mi riguarda". Una responsabilità tracciata entro i confini della propria carne, circoscritta dal gesto. Quello che la propria mano ha fatto è quello che compete alla propria coscienza. È questo uno degli elementi che credo faccia diventare il vecchio generale l'icona involontaria dei clan dell'intero globo. Michail Kalashnikov non è un trafficante d'armi, non conta nulla nelle mediazioni d'acquisto dei mitra, non ha influenza politica, non possiede personalità carismatica ma porta con sé l'imperativo quotidiano dell'uomo al tempo del mercato: fa' quello che devi fare per vincere, il resto non ti riguarda.

Mariano aveva a tracolla uno zaino e indossava una felpa col cappuccio: tutto firmato Kalashnikov. Il generale aveva diversificato gli investimenti e stava facendo di se stesso un imprenditore di talento. Nessuno più di lui poteva godere di un nome arcinoto. Così un imprenditore tedesco aveva messo su un'azienda di vestiti griffati Kahlashnikov, e il generale aveva preso gusto a distribuire il suo cognome, investendo anche in una ditta di estintori. Mentre Mariano raccontava bloccò il filmato d'improvviso e si catapultò fuori dal bar. Aprì il cofano della sua auto e, cacciata una valigetta militare, la posò sul bancone del bar. Credevo fosse completamente impazzito nella sua mistica da mitra. Temevo avesse attraversato mezza Europa con un mitra nel portabagagli e che lo volesse sfoderare davanti a tutti. Invece da quella valigia militare uscì un piccolo kalashnikov di cristallo pieno di vodka. Era una bottiglia molto kitsch con un tappo in punta di canna. E nell'agro aversano tutti i bar che dovevano rifornirsi da Mariano, dopo il suo viaggio, avevano come proposta commerciale la vodka Kalashnikov. Già immaginavo la riproduzione di cristallo campeggiare alle spalle di tutti i baristi tra Teverola e Mondragone. Il filmino stava finendo, gli occhi — a forza di strizzarli per attenuare i gradi di miopia — mi facevano male. Ma l'ultima immagine era davvero imperdibile. Due vecchietti sull'uscio di casa che, le pantofole ai piedi, salutavano con la mano il giovane ospite con ancora in bocca l'ultimo pezzo di mozzarella. Intorno a me e Mariano intanto s'era accalcato un gruppo di ragazzini che guardava il reduce come un eletto, una sorta di eroe dell'incontro. Uno che aveva conosciuto Michail Kalashnikov. Mariano mi guardò con un'espressione di una complicità finta che non avevo mai avuto con lui. Tolse l'elastico alle fotografie e iniziò a scorrerle. Dopo averne sfogliate decine ne tirò fuori una: "Questa è per te. E non dire che non ti penso".

Sul ritratto del vecchio generale una scritta a pennarello nero: "To Roberto Saviano with Best Regards M. Kalashnikov".

Agli istituti di ricerca economica internazionali servono continuamente dati. Produrli come cibo quotidiano per i giornali, le riviste, i partiti politici. Il celebre indice "big Mac", per esempio, che valuta tanto più florido un paese quanto più il panino costa caro nei McDonald's. Per valutare lo stato dei diritti umani invece gli analisti osservano il prezzo a cui viene venduto il kalashnikov. Meno costoso è il mitra, più i diritti umani sono violati, lo Stato di diritto è in cancrena, l'ossatura degli equilibri sociali è marcia e in disfacimento.

Nell'ovest dell'Africa può arrivare a cinquanta dollari. Addirittura in Yemen è possibile rintracciare AK-47 usati di seconda e terza mano anche a sei dollari. Il dominio all'est dei clan, la zampata sui depositi di armi dei paesi socialisti in disfacimento hanno fatto dei clan casertani e napoletani i referenti migliori per i trafficanti di armi, assieme alle cosche calabresi con cui sono in perenne contatto.

La camorra — gestendo una grossa fetta del mercato internazionale di armi — determinerebbe i prezzi dei kalashnikov, divenendo indirettamente il giudice dello stato di salute dei diritti dell'uomo in Occidente. Come se drenasse il livello del diritto, lentamente, come la goccia che casca nel catetere. Mentre i gruppi criminali francesi e americani usavano l'M16 di Eugene Stoner, il fucile d'assalto dei marines grosso, ingombrante, pesante; un fucile che dev'essere oliato, pulito, se non vuoi che ti s'inceppi in mano, in Sicilia e in Campania, da Cinisi a Casal di Principe, i kalashnikov già negli anni '80 passavano di mano in mano. Nel 2003, dalle dichiarazioni di un pentito — Raffaele Spinello del clan Genovese, egemone ad Avellino e nell'avellinese — saltò fuori il rapporto tra i baschi dell'ETA e la camorra. Il clan Genovese è alleato ai Cava di Quindici e alle famiglie del casertano. Non è un clan di prim'ordine, eppure era in grado di fornire armi a uno dei principali gruppi armati europei che, nel corso di una trentennale lotta, aveva battuto strade molteplici per l'approvvigionamento di armi. Ma i clan campani risultavano interlocutori privilegiati. Due etarras, i militanti baschi José Miguel Arreta e Grada Morillo Torres trattarono — secondo indagini della Procura di Napoli del 2003 — per dieci giorni in una suite di un albergo di Milano. Prezzi, percorsi, scambi. Si misero d'accordo. L'ETÀ inviava cocaina attraverso i militanti dell'organizzazione per ricevere in cambio armi. L'ETÀ avrebbe costantemente abbassato il costo della coca che si procurava attraverso i contatti con i gruppi guerriglieri colombiani e si assumeva i costi e le responsabilità dell'arrivo della merce in Italia: tutto pur di mantenere rapporti con i cartelli campani, gli unici forse in grado di fornire interi arsenali. Ma I'ETA non voleva solo kalashnikov. Chiedeva armi pesanti, esplosivi potenti e soprattutto lanciamissili.

I rapporti tra camorra e guerriglieri sono sempre stati prolifici. Persino in Perù, da sempre patria d'elezione dei narcos napoletani. Nel 1994 il Tribunale di Napoli si è rivolto per rogatoria alle autorità peruviane per svolgere indagini dopo che una decina di italiani erano stati fatti fuori a Lima. Indagini indirizzate a svelare i rapporti che i clan napoletani avevano intrattenuto — attraverso i fratelli Rodriguez — con il MRTA. I guerriglieri dal fazzoletto rosso e bianco tirato a triangolo sul volto. Anche loro avevano trattato con i clan, persino loro. Coca in cambio di armi. Nel 2002 venne arrestato un avvocato, Francesco Magliulo, legato secondo le accuse al clan Mazzarella, la potente famiglia di San Giovanni a Teduccio con un pied-à-terre aiminale nella città di Napoli, al quartiere Santa Lucia e Forcella. Lo avevano seguito per oltre due anni, nei suoi affari tra Egitto, Grecia e Inghilterra. Una telefonata intercettata proveniva da Mogadiscio, dalla villa del generale Aidid, il signore della guerra somalo che — contrapponendosi alle bande di Ali Mahdi — aveva ridotto la Somalia a un corpo dilaniato e marcio da seppellire assieme ai rifiuti tossici di mezz'Europa. Le indagini sui rapporti tra il clan Mazzarella e la Somalia proseguirono in ogni direzione, e sicuramente l'elemento del traffico d'armi divenne una pista fondamentale. Anche i signori della guerra divengono signorine davanti alla necessità di approvvigionarsi di armi con i clan campani.

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