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Mariano quel giorno stazionò rutta la mattinata a casa dei vecchi Kalashnikov. Il suo presentatore russo doveva essere davvero influente, se il generale gli diede tanta confidenza. La telecamera filmò mentre si sedevano a tavola e una vecchietta minuta apriva il polistirolo della scatola di mozzarella. Mangiarono con gusto. Vodka e mozzarella. Non volle perdere neanche questa scena, Mariano, e infatti piazzò la telecamera a capotavola riprendendo tutto. Voleva una prova certa del generale Kalashnikov che mangiava le mozzarelle del caseificio del boss per cui lavorava. L'obiettivo posato sulla tavola riprendeva in lontananza un mobiletto con le foto incorniciate di bambini. Anche se volevo che quel video terminasse il prima possibile avendo già un insopportabile mal di mare, non riuscii a trattenere la curiosità:

"Mariano, ma tutti quei figli e nipoti ha Kalashnikov?"

"Macché figli! Sono tutti figli di gente che gli manda le foto dei bambini che si chiamano come lui, gente magari che si è salvata grazie a un suo mitra o che semplicemente lo ammira…"

Come i chirurghi che ricevono le foto dei bambini che hanno salvato, guarito, operato e le incorniciano posandole sulle mensole dei loro studi a memento dei successi della loro professione, così il generale Kalashnikov aveva nel salotto di casa le foto dei bambini che portavano il nome della sua creatura. Del resto, un cronista italiano in Angola aveva intervistato un noto guerrigliero del Movimento di Liberazione che aveva dichiarato: "Ho chiamato mio figlio Kalsh perché è sinonimo di libertà".

Kalashnikov è un vecchio di ottantaquattro anni arzillo e ben conservato. Lo invitano ovunque, una sorta di icona mobile sostitutiva del fucile mitragliatore più celebre al mondo. Prima di andare in pensione come generale di corpo d'armata percepiva uno stipendio fisso di cinquecento rubli, all'epoca più o meno un mensile di cinquecento dollari. Se Kalashnikov avesse avuto la possibilità di brevettare il suo mitra in Occidente, ora sarebbe sicuramente tra i più ricchi al mondo. Si calcola — con cifre approssimate per difetto — che oltre centocinquanta milioni di mitra della famiglia del kalashnikov siano stati prodotti, tutti partendo dal progetto originario del generale. Sarebbe bastato che per ogni mitra avesse ricevuto un dollaro e ora galleggerebbe nel danaro. Ma questa tragica mancanza di soldi non lo turbava affatto, lui aveva generato la creatura, le aveva impresso il suo soffio, e questo sembrava essere condizione sufficiente di appagamento. O forse un profitto economico lo aveva, in realtà. Mariano mi aveva raccontato che gli ammiratori gli versavano danaro ogni tanto: omaggi di capitale, migliaia di dollari sul suo conto, doni preziosi dall'Africa, si parlava di una maschera tribale d'oro regalatagli da Mobutu e di un baldacchino d'avorio intarsiato inviatogli da Bokassa; dalla Cina invece si diceva gli fosse arrivato addirittura un treno, con tanto di locomotore e vagoni, donatogli da Deng Xiaoping che sapeva delle difficoltà del generale a salire su un aereo. Ma queste erano soltanto leggende, voci circolanti sui taccuini dei giornalisti che — non riuscendo a intervistare il generale, che senza presentazioni importanti non riceveva nessuno — intervistavano gli operai della fabbrica di armi di Izhevsk.

Michail Kalashnikov rispondeva automaticamente, sempre le stesse risposte qualunque fosse la domanda, servendosi di un inglese liscio, imparato da adulto, usato come un cacciavite per svitare un bullone. Mariano gli faceva domande inutili e generiche — un modo per abbassare il suo livello di ansia — sul mitra: "Non ho inventato quell'arma perché venisse venduta a scopo di lucro, ma solo ed esclusivamente per difendere la madre patria all'epoca in cui ne aveva bisogno. Se potessi tornare indietro rifarei le stesse cose e vivrei nello stesso modo. Ho lavorato tutta la vita e la mia vita è il mio lavoro". Una risposta che ripete a ogni domanda sul suo mitra.

Al mondo non esiste cosa, organica o disorganica, oggetto metallico, elemento chimico, che abbia fatto più morti del-l'AK-47. Il kalashnikov ha ucciso più della bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki, più del virus dell'HIV, più della peste bubbonica, più della malaria, più di tutti gli attentati dei fondamentalisti islamici, più della somma dei morti di tutti i terremoti che hanno agitato la crosta terrestre. Un numero esponenziale di carne umana impossibile persino da immaginare. Solo un pubblicitario riuscì, a un convegno, a dare una descrizione convincente: consigliava che per immaginare i morti uccisi dal mitra si sarebbe dovuto riempire una bottiglia con lo zucchero, facendo cascare i granelli dal foro sulla punta del pacco. Ogni grano di zucchero è un morto ucciso dal kalashnikov.

L'AK-47 è un mitra che riesce a sparare nelle condizioni più disparate. Incapace di incepparsi, pronto a sparare anche sporco di terra, anche se zuppo d'acqua, comodo da impugnare, con un grilletto morbido che può essere premuto anche da un bambino. Fortuna, errore, imprecisione, tutti gli elementi che fanno salva la vita durante gli scontri sembrano eliminati dalla certezza dell'AK-47, uno strumento che ha impedito al fato di avere un ruolo. Facile da usare, facile da trasportare, spara con un'efficienza che permette di uccidere senza nessun tipo d'addestramento. "È capace di trasformare in combattente anche una scimmia" dichiarava Cabila, il temibile leader politico congolese. Nei conflitti degli ultimi trent'anni più di cinquanta paesi hanno usato il kalashnikov come fucile d'assalto dei loro eserciti. Stragi perpetrate col kalashnikov — accertate dall'oNU — sono avvenute in Algeria, Angola, Bosnia, Burundi, Cambogia, Cecenia, Colombia, Congo, Haiti, Kashmir, Mozambico, Ruanda, Sierra Leone, Somalia, Sri Lanka, Sudan, Uganda. Più di cinquanta eserciti regolari possiedono il kalashnikov, ed è impossibile fare una statistica dei gruppi irregolari, paramilitari, guerriglieri che lo utilizzano.

Sono morti sotto il fuoco del kalashnikov Sadat nel 1981, il generale Dalla Chiesa nel 1982, Ceausescu nel 1989. Nel palazzo della Moneda, Salvador Allende fu trovato con in corpo proiettili di kalashnikov. E queste morti eccellenti sono il vero ufficio stampa storico del mitra. L'AK-47 è persino finito nella bandiera del Mozambico e in centinaia di simboli di gruppi politici, da Al Fatah in Palestina all'MRTA in Perù. Quando compare in video, sulle montagne Osama Bin Laden lo usa come unico simbolo minaccioso. Ha accompagnato ogni ruolo: quello del liberatore, quello dell'oppressore, del guerrigliero dell'esercito regolare, del terrorista, del rapitore, della testa di cuoio che scorta i presidenti. Kalashnikov ha creato un'arma efficientissima capace di crescere negli anni, un'arma che ha avuto diciotto varianti e ventidue nuovi modelli foggiati a partire dal progetto iniziale. È il vero simbolo del liberismo. L'icona assoluta. Potrebbe divenirne l'emblema: non importa chi sei, non importa che pensi, non importa da dove provieni, non importa che religione hai, non importa contro chi e a favore di cosa, basta che quello che fai lo fai con il nostro prodotto. Con cinquanta milioni di dollari è possibile acquistare circa duecentomila mitra. Ossia, con cinquanta milioni di dollari è possibile creare un piccolo esercito. Tutto ciò che distrugge i vincoli politici e di mediazione, tutto ciò che permette un enorme consumo e un esponenziale potere diviene vincente sul mercato; e Michail Kalashnikov, con la sua invenzione, ha permesso a tutti i gruppi di potere e di micropotere di avere uno strumento militare. Nessuno, dopo l'invenzione del kalashnikov, può dire di essere stato sconfitto perché non poteva accedere alle armi. Ha svolto un'operazione d'eguaglianza: armi per tutti, massacri per ognuno. La battaglia non più territorio solo per eserciti. Su scala internazionale il kalashnikov ha fatto ciò che i clan secondiglianesi hanno fatto a livello locale, liberalizzando in maniera totale la cocaina e permettendo a chiunque di diventare narcotrafficante, consumatore, venditore al dettaglio, liberando il mercato dalla mera mediazione criminale e gerarchica. Allo stesso modo il kalashnikov ha permesso di far divenire soldati tutti, anche bambini e ragazzine smilze; e ha trasformato in generali di corpo d'armata persone che non riuscirebbero a guidare un gregge di dieci pecore. Comprare mitra, sparare, consumare persone e cose, e tornare a comprare. Il resto è solo dettaglio. Il viso di Kalashnikov è sereno in ogni foto. Con la fronte spigolosa slava e gli occhi da mongolo che invecchiando divengono sempre più feritoie sottili. Dorme il sonno dei giusti. Va a letto magari non felice ma sereno, le pantofole sotto il letto, in ordine; anche quando è serio ha le labbra tirate ad arco come il viso di Palla di Lardo in Full Metal Jacket. Sorridono le labbra, ma non il viso.

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