L'ultima volta che avevo sentito dei colpi di mitra era stato qualche anno prima. Vicino all'università di Santa Maria Capua Vetere, non ricordo bene, era un quadrivio però, ne sono certo. Quattro macchine bloccarono l'auto di Sebastiano Caterino, un camorrista da sempre vicino ad Antonio Bardellino il capo dei capi della camorra casertana negli anni '80 e '90, e lo massacrarono con un'orchestra di kalashnikov. Quando Bardellino scomparve e la dirigenza cambiò, Caterino riuscì a scappare, a sottrarsi alla mattanza. Per tredici anni non era uscito di casa, aveva vissuto nascosto, metteva il naso fuori di notte, camuffandosi, uscendo dal portone della sua masseria in auto blindate, trascorrendo la vita fuori dal suo paese. Pensava di aver trovato una nuova autorevolezza dopo tanti anni di silenzio. Credeva che il clan rivale, ormai dimentico del passato, non avrebbe attaccato un vecchio leader come lui. E così si era messo a tirar su un nuovo clan a Santa Maria Capua Vetere, la vecchia città romana era diventata il suo feudo. Il maresciallo di San Cipriano d'Aversa, il paese di Caterino, quando è arrivato sul luogo dell'agguato, ha avuto un'unica frase: "L'hanno fatto male proprio!". Qui infatti il trattamento che ti riservano è valutato in base ai colpi che ricevi. Se ti ammazzano con delicatezza, un colpo alla testa o alla pancia, viene letta come un'operazione necessaria, chirurgica, senza rancore. Ficcare oltre duecento colpi nell'auto e oltre quaranta nel corpo è invece un modo assoluto di cancellarti dal fegato della terra. La camorra ha una memoria lunghissima e capace di pazienza infinita. Tredici anni, centocinquantasei mesi, quattro kalashnikov, duecento colpi, una pallottola per ogni mese d'attesa. Le armi in certi territori hanno anche la traccia della memoria, conservano in loro stesse con livore, una condanna che poi sputano al momento giusto.
Quella mattina passavo le dita sulle decorazioni da mitragliatrice con lo zaino indosso. Stavo per partire, dovevo andare da mio cugino a Milano. È strano come con chiunque parli, qualunque sia l'argomento, appena dici che stai per andartene via ricevi auguri, complimenti e giudizi entusiasti: " È così che si fa. Fai benissimo, lo farei anch'io". Non devi aggiungere dettagli, specificare cosa andrai a fare. Qualunque sia il motivo, sarà migliore di quelli che troverai per continuare a vivere in queste zone. Quando mi si chiede di dove sono, non rispondo mai. Vorrei rispondere del sud, ma mi pare troppo retorico. Quando poi me lo si chiede su un treno, mi fisso i piedi e fingo di non aver sentito, poiché mi viene in mente Conversazione in Sicilia di Vittorini, e rischio, se solo apro bocca, di cantilenare la voce di Silvestro Ferrato. E non è il caso. I tempi mutano, le voci sono le stesse. In viaggio però mi capitò di incontrare una signora grassona ficcata in malo modo nel sediolino dell'Eurostar. Era salita a Bologna con una voglia incredibile di parlare per ingolfare anche il tempo, oltre che il suo corpo. Insisteva per sapere da dove venivo, cosa facevo, dove andavo. Avevo voglia di rispondere mostrandole la ferita al polpastrello, e basta. Ma lasciai perdere. Risposi: "Sono di Napoli". Una città che lascia parlare talmente tanto, che basta pronunciarne il nome per emanciparsi da ogni tipo di risposta. Un luogo dove il male diviene tutto il male, e il bene tutto il bene. Mi addormentai.
La mattina dopo, prestissimo Mariano mi chiamò ansioso. Servivano un po' di contabili e organizzatori per un'operazione molto delicata che alcuni imprenditori delle nostre zone stavano facendo a Roma. Giovanni Paolo II stava male, forse era persino morto, ma ancora non avevano ufficializzato la notizia. Mariano mi chiese di accompagnarlo. Scesi alla prima fermata possibile e tornai indietro. Negozi, alberghi, ristoranti, supermercati, avevano bisogno in pochissimi giorni di enormi e straordinari rifornimenti di ogni tipo di prodotto. C'era da guadagnare un mare di danaro, milioni di persone in brevissimo tempo si sarebbero riversati nella capitale, vivendo per strada, trascorrendo ore lungo i marciapiedi, dovendo bere, mangiare, in una parola comprare. Si potevano triplicare i prezzi, vendere a ogni ora, anche di notte, spremere profitto da ogni minuto. Mariano fu chiamato in causa, mi propose di fargli compagnia e per questa gentilezza mi avrebbe passato un po' di soldi. Nulla è gratuito. A Mariano era stato promesso un mese di ferie così da poter realizzare il sogno di andare in Russia a incontrare Michail Kalashnikov; aveva avuto persino garanzie da un uomo delle famiglie russe che aveva giurato di conoscerlo. Mariano avrebbe potuto così incontrarlo, fissarlo negli occhi, toccare le mani che avevano inventato il potente mitra.
Il giorno del funerale del papa, Roma era un carnaio. Impossibile riconoscere i volti delle strade, i percorsi dei marciapiedi. Un'unica pelle di carne aveva rivestito il catrame, le entrate dei palazzi, le finestre, una colata che si incanalava in ogni possibilità di spazio. Una colata che sembrava aumentare il proprio volume, sino a far esplodere i canali in cui confluiva. Ovunque essere umani. Ovunque. Un cane terrorizzato si era nascosto tremante sotto un autobus, aveva visto ogni suo spazio vitale violato da piedi e gambe. Io e Mariano ci fermammo su un gradino di un palazzo. L'unico a riparo da un gruppo che aveva deciso come voto di cantare per sei ore di seguito una canzoncina ispirata a san Francesco. Ci sedemmo a mangiare un panino. Ero esausto. Mariano invece non si stancava mai, ogni energia gli veniva pagata e questo lo faceva sentire perennemente carico.
D'improvviso mi sentii chiamare. Avevo capito ancor prima di voltarmi di chi si trattava. Era mio padre. Da due anni non ci vedevamo, avevamo vissuto nella stessa città senza mai incontrarci. Incredibile trovarsi nel labirinto di carne romano. Mio padre era imbarazzatissimo. Non sapeva come salutarmi e forse neanche se poteva farlo come avrebbe voluto. Ma era euforico come in quelle gite dove sai che in poche ore ti capiteranno cose belle, le stesse che non potranno ripetersi per i successivi tre mesi almeno, e quindi vuoi berle tutte, sentirle sino in fondo, velocemente però, per paura di perdere le altre felicità nel poco tempo che ti rimane. Aveva approfittato del fatto che una compagnia rumena aveva abbassato i costi dei voli verso l'Italia, a causa della morte del papa, e così aveva pagato il biglietto a tutta la famiglia della sua compagna. Tutte le donne del gruppo avevano un velo sui capelli e un rosario arrotolato intorno al polso. Impossibile capire in quale strada ci trovavamo, ricordo solo un enorme lenzuolo che campeggiava tra due palazzi. "Undicesimo comandamento: Non spingere e non sarai spinto." Scritto in dodici lingue. Erano contenti i nuovi parenti di mio padre. Contentissimi di partecipare a un evento così importante come la morte del papa. Tutti sognavano sanatorie per gli immigrati. Soffrire per lo stesso motivo, partecipare a una manifestazione così immensa e universale era per questi rumeni il miglior modo di prendere cittadinanza sentimentale e oggettiva con l'Italia, prima ancora di quella legale. Mio padre adorava Giovanni Paolo II, il fascino di quell'uomo che faceva baciare a tutti la sua mano lo esaltava. Come era riuscito senza palesi ricatti e chiare strategie a raggiungere quel potere immenso d'ascolto, lo intrigava. Tutti i potenti si inginocchiavano dinanzi a lui. Per mio padre questo bastava per ammirare un uomo. Lo vidi inginocchiarsi assieme alla madre della sua compagna per recitare un rosario improvvisato per strada. Dal mucchio di parenti rumeni, vidi spuntare un bambino. Capii subito che era il figlio di mio padre e di Micaela. Sapevo che era nato in Italia per poter avere la cittadinanza, ma che per esigenze della madre aveva sempre vissuto in Romania. Cercava di tenersi ancorato alla gonna della mamma. Non l'avevo mai visto, ma conoscevo il suo nome. Stefano Nicolae. Stefano come il padre di mio padre, Nicolae come il padre di Micaela. Mio padre lo chiamava Stefano, sua madre e i suoi zii rumeni Meo. In breve sarebbe stato chiamato Nico, ma mio padre non aveva ancora avuto il tempo d'essere sconfitto. Ovviamente il primo dono che aveva ricevuto dal padre appena sceso dalla scaletta dell'aereo, era un pallone. Mio padre vedeva per la seconda volta il figlioletto ma lo trattava come se fosse sempre stato dinanzi ai suoi occhi. Lo prese in braccio e mi si avvicinò.