"Nico adesso viene a vivere qui. In questa terra. Nella terra del padre."
Non so perché ma il bambino si intristì nell'espressione, lasciò cadere il pallone per terra, riuscii a fermarlo con un piede prima che si perdesse irrimediabilmente tra la folla.
Mi venne d'improvviso in mente l'odore mischiato di salsedine e polvere, di cemento e spazzatura. Un odore umido. Mi ricordai di quando avevo dodici anni sulla spiaggia di Pi-netamare. Mio padre venne nella mia stanza, mi ero appena svegliato. Forse di domenica: "Ti rendi conto che tuo cugino già sa sparare, e tu? Sei meno di lui?".
Mi portò al Villaggio Coppola, sul litorale domizio. La spiaggia era una miniera abbandonata di utensili divorati dalla salsedine e avvolti in croste di calce. Sarei stato a scavare per giorni interi, trovando cazzuole, guanti, scarponi sfondati, zappe spaccate, picconi sbeccati ma non venivo portato lì per giocare nella spazzatura. Mio padre passeggiava cercando i bersagli, quelli che preferiva erano le bottiglie. Quelle Peroni, le predilette. Mise le bottiglie sul tetto di una 127 bruciata, ce n'erano molti di scheletri d'auto. Le spiagge di Pinetamare erano usate anche per raccogliere tutte le macchine bruciate usate per rapine o agguati. La Beretta 92 Fs di mio padre me la ricordo ancora. Era tutta graffiata, sembrava brizzolata, una vecchia signora pistola. Tutti la conoscono come M9 non so perché. La sento sempre citare con questo nome: "Ti metto un M9 tra gli occhi, devo cacciare 1' M9? Cavolo, mi devo prendere un M9". Mio padre mi mise in mano la Beretta. La sentii pesantissima. Il calcio della pistola è ruvido, sembra di carta vetrata, ti si appiccica nel palmo e quando ti sfili la pistola di mano sembra quasi che ti graffi con i suoi microdenti. Mio padre mi indicava come togliere la sicura, armare la pistola, stendere il braccio, chiudere l'occhio destro se il bersaglio era a sinistra e puntare.
"Robbe', il braccio morbido ma tosto. Insomma tranquillo, ma non flaccido… usa le due mani."
Prima di tirare il grilletto con tutta la forza dei due indici che si spingevano a vicenda, chiudevo gli occhi, alzavo le spalle come se volessi tapparmi le orecchie con le scapole. Il rumore degli spari ancora oggi mi dà un fastidio terribile. Devo avere qualche problema ai timpani. Resto stordito per mezz'ora dopo uno sparo.
A Pinetamare i Coppola, famiglia di imprenditori molto potenti, costruì il più grande agglomerato urbano abusivo d'Occidente. Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento, il Villaggio Coppola, appunto. Non fu chiesta autorizzazione, non serviva, in questi territori le gare d'appalto e i permessi sono modi per aumentare vertiginosamente i costi di produzione poiché bisogna oliare troppi passaggi burocratici. Così i Coppola sono andati direttamente con le betonerie. Quintali di cemento armato hanno preso il posto di una delle pinete marittime più belle del Mediterraneo. Furono edificati palazzi dai cui citofoni si sentiva il mare.
Quando centrai finalmente il primo bersaglio della mia vita provai una sensazione mista di orgoglio e senso di colpa.
Ero stato capace di sparare, finalmente ero capace. Nessuno poteva più farmi del male. Ma ormai avevo imparato a usare un arnese orrendo. Uno di quelli che una volta che lo sai usare non puoi più smettere di usarlo. Come imparare ad andare in bicicletta. La bottiglia non era esplosa completamente. Anzi era persino rimasta in piedi. Sventrata a metà. La metà destra. Mio padre si allontanò verso la macchina. Rimasi lì con la pistola, ma è strano non mi sentii solo, nonostante fossi circondato da spettri di spazzatura e metallo. Tesi il braccio verso il mare e tirai altri due colpi nell'acqua. Non li vidi schizzare, né forse raggiunsero l'acqua. Ma colpire il mare mi sembrava una cosa coraggiosa. Mio padre arrivò con un pallone di cuoio, con sopra l'effigie di Maradona. Il premio per la mira. Poi si avvicinò come sempre alla mia faccia. Sentivo il suo alito di caffè. Era soddisfatto, ora quantomeno suo figlio non era da meno del figlio di suo fratello. Facemmo la solita cantilena, il suo catechismo:
"Robbe', cos'è un uomo senza laurea e con la pistola?"
"Uno stronzo con la pistola."
"Bravo. Cos'è un uomo con la laurea senza pistola?"
"Uno stronzo con la laurea…"
"Bravo. Cos'è uomo con la laurea e con la pistola?"
"Un uomo, papà!"
"Bravo, Robertino!"
Nico camminava ancora incerto. Mio padre gli parlava a raffica. Non capiva il piccolo. Per la prima volta sentiva parlare in italiano, anche se la mamma era stata abbastanza furba da farlo nascere qui.
"Ti somiglia, Roberto?"
Lo guardai a fondo. E fui felice, per lui. Non mi somigliava per nulla.
"Per fortuna non mi somiglia!"
Mio padre mi guardò con la solita delusa espressione, come dire che ormai neanche scherzando mi avrebbe sentito dire ciò che avrebbe voluto ascoltare. Avevo sempre l'impressione che mio padre fosse in guerra con qualcuno. Come se dovesse svolgere una battaglia con alleanze, precauzioni, macchinoni. Andare in un albergo due stelle per mio padre era come perdere prestigio verso qualcuno. Come se dovesse rendere conto a un'entità che l'avrebbe punito con violenza se non avesse vissuto nella ricchezza e con un atteggiamento autoritario e buffonesco.
"Il migliore, Robbe', non deve avere bisogno di nessuno, deve sapere certo, ma deve anche fare paura. Se non fai paura a nessuno, se nessuno guardandoti non si mette soggezione, allora in fondo non sei riuscito a essere veramente capace."
Quando andavamo a mangiare fuori, nei ristoranti si sentiva infastidito dal fatto che spesso i camerieri servivano, anche se entravano un'ora dopo di noi, alcuni personaggi della zona. I boss si sedevano e dopo pochi minuti ricevevano tutto il pranzo. Mio padre li salutava. Ma tra i denti strideva la voglia di avere il loro medesimo rispetto. Rispetto che consisteva nel generare eguale invidia di potenza, eguale timore, medesima ricchezza.
"Li vedi quelli. Sono loro che comandano veramente. Sono loro che decidono tutto! C'è chi comanda le parole e chi comanda le cose. Tu devi capire chi comanda le cose, e fingere di credere a chi comanda le parole. Ma devi sempre sapere la verità in corpo a te. Comanda veramente solo chi comanda le cose." I comandanti delle cose, come li chiamava mio padre erano seduti al tavolo. Avevano deciso della sorte di queste terre da sempre. Mangiavano assieme, sorridevano. Negli anni poi si sono scannati tra loro, lasciando scie di migliaia di morti, come ideogrammi dei loro investimenti finanziari. I boss sapevano come rimediare allo sgarbo d'essere serviti per primi. Offrivano il pranzo a tutti i presenti nel locale. Ma solo dopo essersene andati, temendo di ricevere ringraziamenti e piaggerie. Tutti ebbero il pranzo pagato, tranne due persone. Il professore lannotto e sua moglie. Non li avevano salutati, e loro non avevano osato offrirgli il pranzo. Ma gli avevano fatto dono, attraverso un cameriere, di una bottiglia di limoncello. Un camorrista sa che deve curarsi anche dei nemici leali poiché sono sempre più preziosi di quelli nascosti. Quando dovevo ricevere un esempio negativo mio padre mi additava il professor Iannotto. Erano stati a scuola insieme. Iannotto viveva in fitto, cacciato dal suo partito, senza figli, sempre incavolato e mal vestito. Insegnava al biennio di un liceo, lo ricordo sempre a litigare con i genitori che gli chiedevano a quale suo amico mandare i figli a ripetizione privata per farli promuovere. Mio padre lo considerava un uomo condannato. Un morto che camminava.
"È come chi decide di fare il filosofo e chi il medico, secondo te chi dei due decide della vita di una persona?"
"Il medico!"