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Seconda parte

Kalashnikov

Ci avevo passato le dita sopra. Avevo anche chiuso gli occhi. Facevo scivolare il polpastrello dell'indice sull'intera superficie. Dall'alto in basso. Poi quando passavo sul buco, mezza unghia si arenava. Lo facevo su tutte le vetrine. A volte nei fori entrava l'intero polpastrello, a volte mezzo. Poi aumentai la velocità, percorrevo la superficie liscia in modo disordinato come se il mio dito fosse una sorta di verme impazzito che entrava e usciva dai buchi, superava gli avvallamenti, scorazzando sul vetro. Sin quando il polpastrello mi si tagliò di netto. Continuai a strisciarlo lungo la vetrina lasciando un alone acquoso rosso porpora. Aprii gli occhi. Un dolore sottile, immediato. Il buco si era riempito di sangue. Smisi di fare l'idiota e iniziai a succhiare la ferita.

I fori dei kalashnikov sono perfetti. Si stampano violenti sui vetri blindati, scavano, intaccano, sembrano dei tarli che mordicchiano e poi lasciano la galleria. I colpi di mitra visti da lontano danno un'impressione strana, come decine di bollicine formatesi nel cuore del vetro, tra le diverse patine blindate. Quasi nessun commerciante dopo una sventagliata di kalashnikov sostituisce le vetrine. Qualcuno spreme dentro i fori la pasta di silicone, qualcun altro li copre con nastri adesivi neri, la maggior parte lascia tutto così com'è. Una vetrina blindata di un negozio può costare anche cinquemila euro, meglio tenersi quindi queste decorazioni violente. E poi in fondo, magari divengono anche attrattiva per gli acquirenti che si fermano con curiosità, chiedendosi che cosa è successo, intrattenendosi con il proprietario dell'esercizio, insomma magari comprano anche qualcosa in più del dovuto. Piuttosto che sostituire i vetri blindati si aspetta magari che li facciano implodere con la prossima raffica. A quel punto l'assicurazione paga, perché se si arriva la mattina presto e si fanno scomparire i vestiti, la raffica di mitra viene rubricata come rapina.

Sparare sulle vetrine non è sempre un gesto di intimidazione, un messaggio da veicolare con le pallottole, quanto piuttosto una necessità militare. Quando arrivano nuove partite di kalashnikov bisogna testarli. Vedere se funzionano, notare se la canna è ben messa, prenderci confidenza, verificare che i caricatori non si inceppino. Potrebbero provare i mitra in campagna, sui vetri di vecchie auto blindate, comprare lastre da sfasciare in tranquillità. Non lo fanno. Sparano invece sulle vetrine, sulle porte blindate, sulle saracinesche, un modo per ricordare che non c'è cosa che non possa esser loro e che tutto, in fondo, è una concessione momentanea, una delega di un'economia che solo loro gestiscono. Una concessione, null'altro che una concessione che in ogni momento potrebbe esser revocata. E poi c'è anche un vantaggio indiretto poiché in zona le vetrerie che hanno i migliori prezzi sui vetri blindati sono tutte legate ai clan, quindi più vetrine rovinate, più danaro per le vetrerie.

La notte precedente erano arrivati una trentina di kalashnikov dall'est. Dalla Macedonia. Skopje-Gricignano d'Aversa, un viaggio veloce, tranquillo che aveva riempito i garage della camorra di mitra e fucili a pompa. La camorra, appena cadde la cortina socialista, incontrò i dirigenti dei partiti comunisti in disfacimento. Al tavolo della trattativa si sedettero rappresentando l'Occidente potente, capace e silenzioso. Sapendo della loro crisi, i clan acquistarono informalmente dagli stati dell'est — Romania, Polonia, ex Jugoslavia — interi depositi di armi, pagando per anni gli stipendi ai custodi, ai piantoni, agli ufficiali addetti alla conservazione delle risorse militari. Insomma, una parte della difesa di quei paesi divenne mantenuta dai clan. H miglior modo, in fondo, per nascondere le armi, è tenerle nelle caserme. Così negli anni, nonostante gli avvicendamenti delle dirigenze, le faide interne e le crisi, i boss hanno avuto come riferimento non il mercato nero delle armi, ma i depositi degli eserciti dell'est a loro completa disposizione. I mitra quella volta li avevano stipati in camion militari che ostentavano sui fianchi il simbolo della NATO. Tir rubati dai garage americani, e che grazie a quella scritta potevano girare tranquillamente per mezza Italia. A Gricignano d'Aversa, la base NATO è un piccolo colosso inaccessibile, come una colonna di cemento armato piazzata in mezzo a una pianura. Una struttura costruita dai Coppola, come tutto del resto da queste parti. Non si vedono quasi mai gli americani. I controlli sono rari. I camion della NATO hanno massima libertà e così quando le armi sono giunte in paese, gli autisti si sono pure fermati in piazza, hanno fatto colazione, hanno inzuppato il cornetto nel cappuccino mentre chiedevano in giro per il bar di poter contattare "un paio di neri per scaricare roba, velocemente". E il termine "velocemente" tutti sanno cosa significa. Le casse di armi sono solo un po' più pesanti delle casse di pomodori, i ragazzi africani che vogliono fare dello straordinario dopo aver lavorato nelle campagne prendono due euro a cassa, il quadruplo di una cassetta di pomodori o mele.

Una volta lessi su una rivista della NATO — dedicata ai familiari dei militari all'estero — un articoletto rivolto a chi doveva venire a Gricignano d'Aversa. Tradussi il brano e me lo scrissi su un'agenda, per ricordarlo. Diceva: "Per capire dove state andando ad abitare, dovete immaginarvi i film di Sergio Leone. È come il Far West, c'è chi comanda, ci sono sparatorie, regole non scritte e inattaccabili. Ma non preoccupatevi, verso i cittadini e i militari americani ci sarà il massimo rispetto e la massima ospitalità. In ogni caso uscite solo se necessario dal comprensorio militare". Mi aiutò quell'articolista yankee a capire meglio il posto dove vivevo.

Quella mattina trovai Mariano al bar in preda a una strana euforia. Stava dinanzi al bancone eccitatissimo. Si caricava di Martini a prima mattina.

"Cos'hai?"

Glielo chiedevano tutti. Persino il barista si rifiutò di riempirgli il quarto bicchiere. Ma lui non rispondeva, come se gli altri potessero benissimo capirlo da soli.

"Io lo voglio andare a conoscere, mi hanno detto che è ancora vivo. Ma è vero?"

"Cosa è vero?"

"Ma come ha fatto? Io mi prendo le ferie e lo vado a conoscere…"

"Ma chi? Cosa?"

"Ti rendi conto, è leggero, preciso, poi spari venti, trenta colpi, e non sono passati neanche cinque minuti… è un'invenzione geniale!" Era in estasi. Il barista lo guardò come chi guarda un ragazzino che ha penetrato per la prima volta una donna, e porta sul volto un'espressione inconfondibile, la medesima di Adamo. Poi capì da cosa proveniva l'euforia. Mariano aveva provato per la prima volta un kalashnikov ed era rimasto così favorevolmente impressionato dall'aggeggio che voleva incontrare il suo inventore Michail Kalashnikov. Non aveva mai sparato a nessuno, nel clan era entrato per seguire la distribuzione di alcune marche di caffè in diversi bar del territorio. Giovanissimo, laureato in Economia e Commercio, aveva responsabilità di decine di milioni di euro poiché erano decine i bar e le aziende di caffè che volevano entrare nella rete commerciale del clan. Il capozona però non voleva che i suoi uomini, laureati o no, soldati o dirigenti commerciali, non fossero capaci di sparare e così gli aveva dato il mitra in mano. Di notte Mariano aveva scaricato un po' di pallottole su diverse vetrine, scegliendo i bar a caso. Non era un avvertimento, ma insomma anche se lui non sapeva il reale motivo per cui sparava su quelle vetrine, i proprietari sicuramente un motivo valido l'avrebbero trovato. Una causa per sentirsi in errore c'è sempre. Mariano chiamava il mitra con tono truce e professionale: AK-47. Il nome ufficiale della mitragliatrice più celebre al mondo. Un nome piuttosto semplice, dove AK sta per "avtomat kalashnikova", ovvero "l'automatica di Kalashnikov", e dove 47 si riferisce all'anno della sua selezione come arma per l'esercito sovietico. Le armi spesso hanno nomi cifrati, lettere e numeri che dovrebbero celare la loro potenza letale, simboli di spietatezza. In realtà sono banali nomi dati da qualche sottufficiale incaricato di rubricare in deposito nuove armi come nuovi bulloni. I kalashnikov sono leggeri e facili da usare, richiedono una manutenzione semplice. La loro forza consiste nel munizionamento intermedio: né troppo piccolo come quello delle rivoltelle, per evitare di perdere la potenza di fuoco, né troppo grande per evitare il rinculo e la scarsa maneggevolezza e precisione dell'arma. La manutenzione e il montaggio sono tanto semplici che i ragazzi dell'ex Unione Sovietica lo imparavano sui banchi di scuola, alla presenza di un responsabile militare, in un tempo medio di due minuti.

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