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Salvatore Giuliano è un nome importante. Chiamarsi così sembra già essere una condizione sufficiente per comandare. Ma qui a Forcella non è il ricordo del bandito siciliano a conferire autorità a questo ragazzo. È soltanto il suo cognome. Giuliano. La situazione è stata peggiorata dalla scelta di parlare fatta da Lovigino Giuliano. Si è pentito, ha tradito il suo clan per evitare l'ergastolo. Ma come spesso accade nelle dittature, anche se il capo viene tolto di mezzo, nessun altro se non un suo uomo può prenderne il posto. I Giuliano quindi, anche se con il marchio dell'infamia, continuavano a essere gli unici in grado di mantenere rapporti con i grandi corrieri del narcotraffico e imporre la legge della protezione. Col tempo però Forcella si stanca. Non vuole più essere dominata da una famiglia di infami, non vuole più arresti e polizia. Chi vuole prendere il loro posto deve fare fuori l'erede, deve imporsi ufficialmente come sovrano e scacciare la radice dei Giuliano, il nuovo erede: ovvero Salvatore Giuliano, il nipote di Lovigino. Quella sera era il giorno stabilito per ufficializzare l'egemonia, per far fuori il rampollo che stava alzando la testa e mostrare a Forcella l'inizio di un nuovo dominio. Lo aspettano, lo individuano. Salvatore cammina tranquillo, si accorge all'improvviso di essere nel mirino. Scappa, i killer lo inseguono, corre, vuole gettarsi in qualche vicolo. Iniziano gli spari. Giuliano con molta probabilità passa davanti alle tre ragazze, approfitta di loro come scudo e nel trambusto estrae la pistola, inizia a sparare. Qualche secondo e poi fugge via, i killer non riescono a beccarlo. Quattro sono le gambe che corrono all'interno del portone per cercare rifugio. Le ragazze si girano, manca Annalisa. Escono. È a terra, sangue ovunque, un proiettile le ha aperto la testa.

In chiesa riesco ad avvicinarmi ai piedi dell'altare. Lì c'è la bara di Annalisa. Ai quattro lati ci sono vigili in alta uniforme, l'omaggio della regione Campania alla famiglia della ragazzina. La bara è colma di fiori bianchi. Un cellulare, il suo cellulare viene poggiato vicino la base del feretro. Il padre di Annalisa si lamenta. Si agita, balbetta qualcosa, saltella, muove i pugni nelle tasche. Mi si avvicina, ma non è a me che si rivolge, dice: "E adesso? E adesso?". Appena il padre scoppia a piangere tutte le donne della famiglia iniziano a urlare, a battersi, a dondolarsi con strilli acutissimi, appena il capofamiglia smette di piangere, tutte le donne riprendono il silenzio. Dietro scorgo le panche con le ragazzine, amiche, cugine, semplici vicine di Annalisa. Imitano le loro madri, nei gesti, nello scuotere la testa, nelle cantilene che ripetono: "Non esiste! Non è possibile!". Si sentono investite di un ruolo importante: confortare. Eppure trapela da loro orgoglio. Un funerale per una vittima di camorra è per loro un'iniziazione, al pari del menarca o del primo rapporto sessuale. Come le loro madri, con questo evento prendono parte attiva alla vita del quartiere. Hanno le telecamere rivolte verso di loro, i fotografi, tutti sembrano esistere per loro. Molte di queste ragazzine si sposeranno tra non molto con camorristi, di alto o di infimo grado. Spacciatori o imprenditori. Killer o commercialisti. Molte di loro avranno figli ammazzati e faranno la fila al carcere di Poggioreale per portare notizie e soldi ai mariti in galera. Ora però sono soltanto bambine in nero, senza dimenticare i pantaloni a vita bassa e i perizoma. È un funerale, ma sono vestite in modo accurato. Perfetto. Piangono un'amica, sapendo che questa morte le renderà donne. E, nonostante il dolore, non ne vedevano l'ora. Penso al ritorno eterno delle leggi di questa terra. Penso che i Giuliano hanno raggiunto il massimo potere quando Annalisa non era ancora nata e sua madre era una ragazzina che frequentava ragazzine, che poi sono divenute mogli dei Giuliano e dei loro affiliati, hanno da adulte ascoltato la musica di D'Alessio, hanno osannato Maradona che con i Giuliano ha sempre condiviso cocaina e festini, memorabile la foto di Diego Armando Maradona nella vasca a forma di conchiglia di Lovi-gino. Vent'anni dopo, Annalisa muore mentre stavano rincorrendo e sparando a un Giuliano, mentre un Giuliano rispondeva al fuoco usandola come scudo, o forse semplicemente passandole accanto. Un percorso storico identico, eternamente uguale. Imperituro, tragico, perenne.

La chiesa ormai è stracolma. La polizia e i carabinieri però continuano a essere nervosi. Non capisco. Si agitano, perdono la pazienza per un nonnulla, camminano nervosi. Capisco dopo qualche passo. Mi allontano dalla chiesa e vedo che un'auto dei carabinieri divide la folla di persone accorse al funerale da un gruppo di individui tirati a lustro, su moto lussuose, in macchine decappottabili, su scooter potenti. Sono i membri del clan Giuliano, gli ultimi fedelissimi di Salvatore. I carabinieri temono che possano esserci insulti tra questi camorristi e la folla, e che possa generarsi un putiferio. Per fortuna non accade nulla, ma la loro presenza è profondamente simbolica. Attestano che nessuno può dominare nel centro storico di Napoli senza il loro volere, o quantomeno senza la loro mediazione. Mostrano a tutti che loro ci sono e sono ancora i capi, nonostante tutto.

La bara bianca esce dalla chiesa, una folla preme per toccarla, molti svengono, le urla belluine iniziano a incrinare i timpani. Quando il feretro passa sotto la casa di Annalisa, la madre che non ce l'ha fatta ad assistere alla funzione in chiesa tenta di gettarsi dal balcone. Urla, si dimena, il volto è gonfio e rosso. Un gruppo di donne la trattiene. La solita scena tragica avviene. Sia ben chiaro, il pianto rituale, le scenate di dolore non sono menzogne e finzioni. Tutt'altro. Mostrano però la condanna culturale in cui vivono tutt'ora gran parte delle donne napoletane, costrette ancora ad appellarsi a forti comportamenti simbolici per attestare il loro dolore e renderlo riconoscibile all'intera comunità. Benché tremendamente vero, questo frenetico dolore apparentemente mantiene le caratteristiche di una sceneggiata.

I giornalisti si avvicinano appena. Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino sono terrorizzati, temono che il quartiere possa rivoltarsi contro di loro. Non accade, la gente di Forcella ha imparato a trarre vantaggio dalla politica e non si vuole inimicare nessuno. Qualcuno applaude alle forze dell'ordine. Qualche giornalista si eccita per questo gesto. Carabinieri osannati nel quartiere della camorra. Che ingenuità. Quell'applauso è stata una provocazione. Meglio i carabinieri che i Giuliano. Ecco cosa hanno voluto dire. Alcune telecamere tentano di raccogliere testimonianze, si avvicinano a una vecchietta dall'aspetto fragile. Arraffa subito il microfono e urla: "Per colpa di quelli… mio figlio si farà cinquant'an-ni anni di carcere! Assassini!". L'odio contro i pentiti è celebrato. La folla preme, la tensione è altissima. Pensare che una ragazzina è morta perché aveva deciso di ascoltare musica assieme alle amiche, sotto un portone in una serata di primavera, fa girare le viscere. Ho la nausea. Devo restare calmo. Devo capire, se possibile. Annalisa è nata e vissuta in questo mondo. Le sue amiche le raccontavano delle fughe in moto con i ragazzi del clan, lei stessa si sarebbe forse innamorata di un bel ragazzetto ricco, capace di far carriera nel Sistema o forse di un bravo guaglione che si spaccava la schiena tutto il giorno per quattro soldi. Il suo destino sarebbe stato quello di lavorare in una fabbrica in nero, di borse, dieci ore al giorno per cinquecento euro al mese. Annalisa era impressionata dal marchio sulla pelle che hanno le operaie che lavorano il cuoio, nel suo diario era scritto: "le ragazze che lavorano con le borse hanno sempre le mani nere, stanno per tutto il giorno chiuse in fabbrica. C'è anche mia sorella Manu ma almeno a lei il datore di lavoro non la costringe a lavorare anche quando non si sente bene". Annalisa è divenuta simbolo tragico perché la tragedia si è compiuta nel suo aspetto più terribile e consustanziale: l'assassinio. Qui però non esiste attimo in cui il mestiere di vivere non appaia una condanna all'ergastolo, una pena da scontare attraverso un'esistenza brada, identica, veloce, feroce. Annalisa è colpevole d'essere nata a Napoli. Nulla di più, nulla di meno. Mentre il corpo di Annalisa nella bara bianca viene portato via a spalla, la compagna di banco lascia trillare il suo cellulare. Squilla sul feretro: è il nuovo requiem. Un trillo continuo, poi musicale, accenna una melodia dolce. Nessuno risponde.

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