Ugo De Lucia, fedelissimo dei Di Lauro accusato dalla DDA di Napoli di essere responsabile dell'omicidio di Gelso-mina Verde, viene intercettato, come riportato nell'ordinanza del dicembre 2004, da una cimice nascosta in auto:
"Io senza ordine non mi muovo, come sono fatto io!"
Il perfetto soldato mostra la totale obbedienza a Cosimo. Poi commenta l'episodio di un ferimento.
"Io l'ammazzavo, mica gli sparavo in una gamba se ero io gli spappolavo le membrane lo sai!… Appoggiamoci nel rione mio, è tranquillo possiamo lavorare là…"
Ugariello come lo chiamano nel suo quartiere, avrebbe ucciso, mai soltanto ferito.
"Adesso dico io, siamo solo noi, mettiamoci… tutti quanti in un posto… teniamoci nei dintorni cinque in una casa… cinque in un'altra… e cinque in un'altra e ci mandate a chiamare solo quando dobbiamo scendere per sfondargli il cervello!" ^
Organizzare gruppi di fuoco di cinque persone, farli rinta-nare in case sicure, uscire dai nascondigli solo per uccidere. Non fare altro. I gruppi di fuochi li chiamano paranze. Ma Petrone, il suo interlocutore, non è tranquillo:
"Sì, ma se un cornuto di questi va a finire che trova qualche paranza nascosta da qualche parte, ci vedono ci seguono ci schiattano il cervello… almeno un paio di morti facciamoli prima di morire, capito che dico io! Almeno fammeli eliminare quattro, cinque di loro!"
L'ideale per Petrone è ammazzare chi non sa di essere stato scoperto:
"La cosa più semplice è quando sono compagni, te li carichi in macchina e te li porti…"
Vincono perché sono più imprevedibili nel colpire, ma anche perché prevedono già il loro destino. Prima della fine devono, però, infliggere quante più perdite è possibile al nemico.
Una logica kamikaze senza esplosioni. L'unica che in una situazione di minoranza può far sperare in una vittoria. Prima di organizzarsi in paranze iniziano subito a colpire.
Il 2 gennaio 2005 ammazzano Crescenzo Marino, il padre dei McKay. La faccia appesa all'indietro in un'auto insolita per un uomo di settant'anni, una Smart. La più costosa della serie. Forse credeva fosse sufficiente per distrarre le vedette, sembra che un unico colpo l'abbia centrato nella fronte. Niente sangue se non un rivolo che gli attraversa il viso. Forse credeva che uscire di casa per un attimo, un frammento di minuti, non sarebbe stata cosa pericolosa. È però bastato. Lo stesso giorno gli Spagnoli fanno fuori Salvatore Barra in un bar a Casavatore. A Napoli quel giorno arriva il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a chiedere alla città di reagire, a lanciare parole di coraggio istituzionale, di vicinanza dello Stato. Avvengono tre agguati solo nelle ore del suo intervento.
Il 15 gennaio sparano in pieno viso a Carmela Attrice, madre dello scissionista Francesco Barone, "'o russo", indicato nelle indagini come uomo stretto dei McKay. Da tempo la donna non usciva di casa, così per eliminarla usano un ragazzino come esca. Citofona. La signora lo conosce, sa bene chi è, non pensa a nessun pericolo. Scende ancora in pigiama, apre il portone, e qualcuno le punta la canna della pistola in faccia e spara. Sangue e liquido cerebrale escono dalla sua testa come da un uovo rotto.
Quando arrivai sul luogo dell'agguato, alle Case Celesti, non avevano ancora messo il lenzuolo sul corpo. Le persone camminavano nel suo sangue, lasciando le orme ovunque. Deglutii forte, un modo per calmare lo stomaco. Carmela Attrice non era scappata. L'avevano avvertita, sapeva che suo figlio stava con gli Spagnoli, ma l'incertezza della guerra di camorra è questa. Nulla è definito e chiaro. Tutto diviene vero solo quando si compie. Non esiste nelle dinamiche del potere, del potere totale, qualcosa che vada oltre il concreto. E così fuggire, rimanere, scappare, denunciare, divengono scelte troppo sospese, incerte, ogni consiglio trova sempre un con-
trailo gemello, e solo qualche accadimento concreto può far prendere una decisione. Ma quando avviene, la decisione non si può che subirla.
Quando si muore per strada si finisce con un chiasso orrendo intorno. Non è vero che si muore da soli. Si finisce con facce che non si conoscono davanti al naso, persone che toccano gambe e braccia per capire se il corpo è già cadavere o vale la pena chiamare l'autoambulanza. Il viso dei feriti gravi, il volto delle persone che stanno per morire sembrano tutti accomunati dalla stessa paura. E dalla stessa vergogna. Sembra strano, ma un attimo prima di finire c'è come una specie di vergogna. Lo scuorno, dicono qui. Un po' come stare nudi tra la gente. La stessa sensazione avviene quando si è colpiti a morte per strada. Non mi sono mai abituato a vedere i morti ammazzati. Infermieri, poliziotti, tutti sono calmi, impassibili, fanno i loro gesti imparati a memoria chiunque abbiano avanti. "Abbiamo il callo sul cuore e il cuoio che fodera lo stomaco" mi ha detto un giovanissimo autista di auto mortuarie. Quando si arriva prima dell'autoambulanza è difficile staccare gli occhi dal ferito, anche se si vorrebbe non aver mai visto. Mai compreso che quello è il modo in cui si muore. La prima volta che ho visto un morto ammazzato avrò avuto tredici anni. Mi ricordo quella giornata benissimo. Mi svegliai con un imbarazzo tremendo poiché dal pigiama, indossato senza mutande, penzolava una chiara erezione non voluta. Quella classica della mattina, impossibile da dissimulare. Mi ricordo quest'episodio perché mentre stavo andando a scuola m'imbattei in un cadavere nella mia stessa situazione. Eravamo in cinque, con gli zainoni carichi di libri. Avevano crivellato una Alfetta e sulla strada per la scuola ce la trovammo davanti. I miei compagni si catapultarono curiosissimi a guardare. Si vedevano i piedi in aria su sediolino. H più temerario tra noi chiese a un carabiniere come mai dove si poggia la testa ci fossero i piedi. Il carabiniere non esitò a rispondere, come se non si fosse accorto di quanti anni aveva il suo interlocutore.
"I colpi di pioggia l'hanno fatto capotare…"
Ero ragazzino, ma sapevo che colpi di pioggia significava colpi di mitra. Quel camorrista ne aveva presi talmente tanti che il corpo si era capovolto. Testa in giù e piedi all'aria. Poi i carabinieri aprirono lo sportello, il cadavere cadde a terra come un ghiacciolo squagliato. Noi guardavamo indisturbati, senza che nessuno ci dicesse che non era spettacolo per bambini. Senza nessuna mano morale che ci venisse a coprire gli occhi. Il morto aveva un'erezione. Dal jeans attillato si vedeva chiaramente. E la cosa mi sconvolse. Fissai la scena per moltissimo tempo. Per giorni pensai a come potesse essere accaduto. A cosa stesse pensando, cosa stesse facendo prima di morire. Riempii i miei pomeriggi cercando di ipotizzare cosa avesse in mente prima di crepare; fui tormentato sino a quando ebbi il coraggio di chiedere spiegazione e mi fu detto che l'erezione era una reazione comune nei cadaveri dei morti ammazzati. Quella mattina Linda, una ragazzina del nostro gruppo, appena vide il cadavere scivolare dalla portiera dell'auto, iniziò a piangere e si tirò dietro altri due ragazzi. Un pianto strozzato. Un giovane in borghese prese per i capelli il cadavere, gli sputò in faccia. E rivolgendosi a noi disse:
"No, e che piangete a fare? Questo era una chiavica, non è successo niente, va tutto bene. Non è successo niente. Non piangete…"
Da allora, alle scene della polizia scientifica con i guanti che cammina con passo felpato, attenta a non spostare polvere e bossoli, non sono mai più riuscito a crederci. Quando arrivo vicino ai corpi prima delle autoambulanze e fisso gli ultimi momenti di vita di chi si sta accorgendo di morire, mi viene sempre in mente il finale di Cuore di tenebra, quando una donna chiede a Marlowe, ormai tornato in patria, dell'uomo che ha amato, chiede cos'ha detto Kurtz prima di morire. E Marlowe mente. Risponde che ha chiesto di lei, mentre in realtà non ha pronunciato nessuna parola dolce e nessun pensiero prezioso. Kurtz ha detto solo: "L'orrore". Si pensa che l'ultima parola pronunciata da un moribondo sia il suo pensiero ultimo, il più importante, quello fondamentale. Che si muoia pronunciando ciò per cui è valso la pena vivere. Non è così. Quando uno muore non viene fuori nulla, se non la paura. Tutti o quasi tutti ripetono la stessa frase, banale, semplice, immediata: "Non voglio morire". Facce che si sono sempre sovrapposte a quella di Kurtz, visi che esprimono lo strazio, lo schifo e il rifiuto di finire in modo orrendo, nel peggiore dei mondi possibili. Nell'orrore.