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"Non c'è più nessuno di Secondigliano, lui ha cacciato via tutti… sta uscendo solo il martedì e il sabato con quattro auto-a voi vi hanno raccomandato di non muovervi per nessuna ragione. Zio Fester ha mandato il messaggio che per Pasqua vuole duecentocinquanta euro a negozio e non ha paura di nessuno. In settimana dovranno torturare Siviere"

E così, via fax si concerta una strategia. Si mette in agenda una tortura come una fattura commerciale, un'ordinazione, una prenotazione d'aereo. E si denunciano le azioni di un traditore. Bizzarro usciva con una scorta di quattro auto, aveva imposto un racket di 250 euro mensili. Siviero, uomo di Bizzarro, suo autista fedele, andava torturato magari per fargli uscire di bocca i percorsi che il suo capozona avrebbe fatto in futuro. Ma l'almanacco di ipotesi per massacrare Bizzarro non termina qui. Pensano di andare a casa del figlio e "non risparmiare nessuno". E poi una telefonata: un killer è quasi disperato per l'occasione persa, poiché viene a sapere che Bizzarro ha messo il naso fuori, in piazza, di nuovo a mostrare il suo potere e la sua incolumità. E sbraita per l'occasione persa:

"Mannaggia la madonna che ci stiamo perdendo, quello è stato tutta la mattina in piazza…"

Nulla è nascosto. Tutto sembra chiaro, ovvio, suturato alla pelle del quotidiano. Ma l'ex sindaco di Melito segnala in quale albergo Bizzarro si rintana con la sua amante, dove va a consumare tensione e sperma. A tutto ci si può ridurre. A vivere con le luci spente così da non dare segnale di presenza in casa, a uscire con quattro auto di scorta, a non telefonare e ricevere telefonate, a non andare al funerale della propria madre. Ma ridursi a non incontrare la propria amante ha il gusto della beffa, della fine di ogni potere.

È in albergo Bizzarro il 26 aprile 2004, all'hotel Villa Giulia, al terzo piano. A letto con la sua amante. E. commando arriva. Hanno la pettorina della polizia. Nella hall dell'albergo si fanno dare la carta magnetica per aprire, il portiere non chiede neanche il tesserino di riconoscimento ai presunti poliziotti. Battono alla sua porta. Bizzarro è ancora in mutande ma lo sentono avvicinarsi alla porta. Iniziano a sparare. Due raffiche di pistola. La scardinano, la trapassano e colpiscono il suo corpo. I colpi poi sfondano la porta e lo finiscono sparandogli alla testa. Proiettili e schegge di legno conficcati nella carne. Il percorso della mattanza si è ormai configurato. Bizzarro è stato il primo. O uno dei primi. O quantomeno il primo su cui si è testata la forza del clan Di Lauro. Una forza capace di catapultarsi su chiunque osi rompere l'alleanza, distruggere il patto d'affari. L'organigramma degli scissionisti non è ancora certo, non si comprende d'immediato. L'aria che si respira è tesa, ma sembra che si attenda ancora qualcosa. Ma a fare chiarezza, a dare origine al conflitto, arriva qualche mese dopo l'omicidio di Bizzarro qualcosa come una dichiarazione di guerra. Il 20 ottobre 2004 Fulvio Montanino e Claudio Salerno — secondo le indagini, fedelissimi di Cosimo e responsabili di alcune piazze di spaccio — vengono ammazzati con quattordici colpi. Sfumata la riunione trappola, in cui Cosimo e suo padre avrebbero dovuto essere fatti fuori, quest'agguato è l'inizio delle ostilità. Quando arrivano i morti non c'è altro da fare che combattere. Tutti i capi hanno deciso di ribellarsi ai figli di Di Lauro: Rosario Pariante, Raffaele Abbinante, e poi i nuovi dirigenti Raffaele Amato, Gennaro McKay Marino, Arcangelo Abate, Giacomo Migliaccio. Fedeli a Di Lauro rimangono i De Lucia, Giovanni Cortese, Enrico D'Avanzo e un nutrito gruppo di gregari. Assai nutrito. Ragazzi a cui è promessa la scalata al potere, il bottino, la crescita economica e sociale nel clan. La dirigenza del gruppo viene assunta dai figli di Paolo Di Lauro. Cosimo, Marco e Ciro. Cosimo, con grande probabilità, ha intuito che rischierà la morte o il carcere. Arresti e crisi economica. Ma la scelta è obbligata: o attendere lentamente di essere sconfitti dalla crescita di un clan nel proprio seno, o tentare di salvare gli affari, o almeno la propria pelle. Sconfitti nel potere economico significa immediatamente sconfitti anche nella carne.

È guerra. Nessuno comprende come si combatterà, ma tutti sanno con certezza che sarà terribile e lunga. La più spietata che il sud Italia abbia mai visto negli ultimi dieci anni. I Di Lauro hanno meno uomini, sono molto meno forti, molto meno organizzati. In passato hanno sempre reagito con forza a scissioni interne. Scissioni date dalla gestione liberista che ad alcuni sembrava un lasciapassare per l'autonomia, per mettere su il proprio centro imprenditoriale. Una libertà invece quella del clan Di Lauro che viene concessa e non si può pretendere di possedere. Nel 1992 il vecchio gruppo dirigente risolse la scissione di Antonio Rocco, capo-zona di Mugnano, al bar Fulmine, entrando armato di mitra e bombe a mano. Massacrarono cinque persone. Per salvarsi Rocco si pentì, e lo Stato accogliendo la sua collaborazione mise sotto protezione quasi duecento persone, tutte pronte a entrare nel mirino dei Di Lauro. Ma non servì a nulla il pentimento. Le dirigenze del sodalizio non furono scalfite dalle dichiarazioni del pentito.

Questa volta invece gli uomini di Cosimo Di Lauro iniziano a essere preoccupati, come mostra l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale di Napoli il 7 dicembre 2004. Due affiliati, Luigi Petrone e Salvatore Tamburino, si telefonano e commentano la dichiarazione di guerra avvenuta con l'uccisione di Montanino e Salerno.

Petrone: "Hanno ucciso a Fulvio".

Tamburino: "Ah…".

Petrone: "Hai capito?".

Inizia a prendere forma la strategia di lotta, quella dettata secondo Tamburino da Cosimo Di Lauro. Prenderli uno per uno, e massacrarli, se fosse stato necessario anche con le bombe.

Tamburino: "Proprio le bombe, proprio, o no? Questo ha detto Cosimino mo li mando a prendere a uno alla volta… li faccio… malamente, ha detto… tutti quanti…".

Petrone: "Quelli là… L'importante che ci sta la gente, che "faticano"…".

Tamburino: "Gino, ce ne sono a milioni qua. Sono tutti guaglioni… tutti guaglioni… mo ti faccio vedere che combina quello…".

La strategia è nuova. Prendere nella guerra ragazzini, elevarli a rango di soldati, trasformare la macchina perfetta dello spaccio, dell'investimento, del controllo del territorio in un congegno militare. Garzoni di salumieri e macellai, meccanici, camerieri, ragazzini disoccupati. Tutti dovevano divenire la forza nuova e inaspettata del clan. Dalla morte di Montanino comincia un lungo e sanguinoso botta e risposta, con morti su morti: uno, due agguati al giorno, prima i gregari dei due clan, poi i parenti, l'incendio delle case, i pestaggi, i sospetti.

Tamburino: "Cosimino è proprio freddo, ha detto "Mangiamo, beviamo, chiaviamo". Che dobbiamo fare… è successo, andiamo avanti".

Petrone: "Ma io non ce la faccio a mangiare. Ho mangiato per mangiare…".

L'ordine di combattere non dev'essere disperato. L'importante è mostrarsi vincenti. Per un esercito come per un'azienda. Chi si mostra in crisi, chi fugge, chi scompare, chi si rannicchia in sé ha già perso. Mangiare, bere, chiavare. Come se non fosse accaduto nulla, come se nulla stesse accadendo. Ma i due personaggi sono pieni di timore, non sanno quanti affiliati sono passati con gli Spagnoli e quanti sono rimasti con la loro parte.

Tamburino: "E che ne sappiamo quanti di loro si sono buttati con quelli là… non lo sappiamo!".

Petrone: "Ah! quanti di loro si sono portati? Ne sono rimasti un sacco di loro qua Totore! Non ho capito… a questi qua… non gli piacciono i Di Lauro?".

Tamburino: "Io se fossi Cosimino sai che farei? Comincerei a uccidere a tutti quanti. Pure se tenessi il dubbio… a tutti quanti. Inizierei a togliere… hai capito! La prima melma da mezzo…".

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