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Uccidere tutti. Tutti quanti. Anche col dubbio. Anche se non sai da che parte stanno, anche se non sai se hanno una parte. Spara! È melma. Melma, solo melma. Dinanzi alla guerra, al pericolo della sconfitta, alleati e nemici sono ruoli interscambiabili. Piuttosto che individui divengono elementi su cui testare la propria forza e oggettivarla. Solo dopo si creeranno d'intorno le parti, gli alleati, i nemici. Ma prima di allora, bisogna iniziare a sparare.

Il 30 ottobre 2004 si presentano a casa di Salvatore de Ma-gistris: un signore sessantenne che ha sposato la madre di Biagio Esposito, uno scissionista, uno Spagnolo. Vogliono sapere dove si è nascosto. I Di Lauro devono prenderli tutti: prima che si organizzino, prima che possano rendersi conto di essere in maggioranza. Gli spezzano braccia e gambe con un bastone, gli maciullano il naso. Per ogni colpo gli chiedono informazioni sul figlio di sua moglie. Lui non risponde, e a ogni silenzio fanno cadere un altro colpo. Lo riempiono di calci, deve confessare. Ma non lo fa. O forse non sa davvero il luogo del nascondiglio. Morirà dopo un mese di agonia.

Il 2 novembre viene ucciso Massimo Galdiero in un parcheggio. Dovevano colpire il fratello Gennaro, presunto amico di Raffaele Amato. Il 6 novembre viene ammazzato in via Labriola Antonio Landieri, per beccarlo sparano su tutto il gruppo che gli era vicino. Rimarranno ferite in modo grave altre cinque persone. Tutte gestivano una piazza di coca e pare fossero dipendenti di Gennaro McKay. Gli Spagnoli però rispondono e il 9 novembre fanno trovare una Fiat Punto bianca in mezzo a una strada. Dribblano posti di blocco e lasciano l'auto in via Cupa Perrillo. È pieno pomeriggio quando la polizia trova tre cadaveri. Stefano Maisto, Mario Maisto e Stefano Mauriello. I poliziotti, qualsiasi portiera aprano, trovano un corpo. Davanti, dietro, nel portabagagli. A Mugnano, il 20 novembre, ammazzano Biagio Migliaccio. Lo vanno a uccidere nella concessionaria dove lavorava. Gli dicono: "Questa è una rapina" e poi sparano al petto. L'obiettivo era suo zio Giacomo. Lo stesso giorno rispondono gli Spagnoli ammazzando Gennaro Emolo, padre di un fedelissimo dei Di Lauro accusato di far parte del braccio militare. Il 21 novembre i Di Lauro fanno fuori, mentre si trovano in una tabaccheria Domenico Riccio e Salvatore Gagliardi, persone vicine a Raffaele Abbinante. Un'ora dopo, viene ammazzato Francesco Tortora. I killer non vanno in moto ma in auto. Si avvicinano, gli sparano, poi lo raccolgono come un sacco. Lo caricano e lo portano alla periferia di Casavatore dove danno fuoco all'au to e al corpo. Due cose utili in una. A mezzanotte del 22 i carabinieri trovano un'auto bruciata. Un'altra.

Per seguire la faida ero riuscito a procurarmi una radio capace di sintonizzarsi sulle frequenze della polizia. Arrivavo così con la mia Vespa più o meno in sincrono con le volanti. Ma quella sera mi ero addormentato. Il vociare gracchiante e cadenzato delle centrali per me era divenuto una sorta di melodia cullante. Così quella volta fu una telefonata in piena notte che mi avvertì dell'accaduto. Arrivato sul luogo, trovai una macchina completamente bruciata. L'avevano cosparsa di benzina. Litri di benzina, Ovunque. Benzina sui sedili anteriori, benzina su quelli posteriori, benzina sulle gomme, sul volante. Le fiamme erano già consumate, i vetri esplosi, quando sono arrivati i pompieri. Non so bene perché mi sono precipitato davanti a quella carcassa d'auto. C'era un puzzo terribile, di plastica bruciata. Poche persone d'intorno, un vigile urbano con una torcia guarda dentro le lamiere. C'è un corpo, o qualcosa che gli somiglia. I pompieri aprono le portiere prendendo il cadavere, hanno una smorfia di disgusto. Un carabiniere si sente male, appoggiandosi al muro vomita la pasta e patate mangiata poche ore prima. Il corpo era solo un tronco irrigidito, tutto nero, il volto solo un teschio annerito, le gambe scuoiate dalle fiamme. Presero il corpo per le braccia e lo posarono a terra aspettando la macchina mortuaria.

Il furgoncino acchiappamorti gira continuamente, lo si vede da Scampia a Torre Annunziata. Raccoglie, accumula, preleva cadaveri di gente morta sparata. La Campania è il territorio con più morti ammazzati d'Italia, tra i primi posti al mondo. Le gomme della macchina mortuaria sono liscissime, basterebbe fotografare i cerchioni mangiucchiati e il grigiore dell'interno dei pneumatici per avere l'immagine simbolo di questa terra. I tizi uscirono dal furgoncino con i guanti in lattice, sporchissimi, usati e riusati mille volte, e si misero all'opera. Infilarono il cadavere in una busta, quella nera, i body bag in cui solitamente si chiudono i corpi dei soldati morti. Il cadavere sembrava uno di quelli trovati sotto la cenere del Vesuvio dopo che gli archeologi avevano versato il gesso nel vuoto lasciato dal corpo. Le persone intorno all'auto erano diventate decine e decine, ma tutte in silenzio. Sembrava non ci fosse nessuno. Neanche le narici azzardavano a respirare troppo forte. Da quando è scoppiata la guerra di camorra molti hanno smesso di porre limite alla propria sopportazione. E sono lì a vedere cos'altro accadrà. Ogni giorno apprendono cos'altro è possibile, cos'altro dovranno subire. Apprendono, portano a casa, e continuano a campare. I carabinieri iniziano a fare le foto, parte il furgoncino col cadavere. Vado in Questura. Qualcosa diranno su questa morte. In sala stampa ci sono i soliti giornalisti e qualche poliziotto. Dopo un po' si alzano i commenti: "Si ammazzano tra loro, meglio così!". "Se fai il camorrista ecco cosa ti accade." "lì è piaciuto guadagnare e ora goditi la morte, munnezza." I soliti commenti, ma sempre più schifati, esasperati. Come se il cadavere fosse stato lì e tutti avessero qualcosa da rinfacciargli, questa notte rovinata, questa guerra che non finisce più, questi presidi militari che gonfiano ogni spigolo di Napoli. I medici abbisognano di lunghe ore per identificare il cadavere. Qualcuno gli trova il nome di un capozona scomparso qualche giorno prima. Uno dei tanti, uno dei corpi accatastati in attesa del peggior nome possibile nelle celle frigo all'ospedale Cardarelli. Poi giunge la smentita.

Qualcuno si mette le mani sulle labbra, i giornalisti deglutiscono tutta la saliva al punto da seccare la bocca. I poliziotti scuotono la testa guardandosi le punte delle scarpe. I commenti s'interrompono colpevoli. Quel corpo era di Gelsomina Verde, una ragazza di ventidue anni. Sequestrata, torturata, ammazzata con un colpo alla nuca sparato da vicino che le era uscito dalla fronte. Poi l'avevano gettata in una macchina, la sua macchina, e l'avevano bruciata. Aveva frequentato un ragazzo, Gennaro Notturno, che aveva scelto di stare con i clan e poi si era avvicinato agli Spagnoli. Era stata con lui qualche mese, tempo prima. Ma qualcuno li aveva visti abbracciati, magari sulla stessa Vespa. In auto assieme. Gennaro era stato condannato a morte, ma era riuscito a imboscarsi, chissà dove, magari in qualche garage vicino alla strada dove hanno ammazzato Gelsomina. Non ha sentito la necessità di proteggerla perché non aveva più rapporti con lei. Ma i clan devono colpire e gli individui, attraverso le loro conoscenze, parentele, persino gli affetti, divengono mappe. Mappe su cui iscrivere un messaggio. Il peggiore dei messaggi. Bisogna punire. Se qualcuno rimane impunito è un rischio troppo grande che legittima la possibilità di tradimento, nuove ipotesi di scissioni. Colpire e nel modo più duro. Questo è l'ordine. Il resto vale zero. Allora i fedelissimi di Di Lauro vanno da Gelsomina, la incontrano con una scusa. La sequestrano, la picchiano a sangue, la torturano, le chiedono dov'è Gennaro. Lei non risponde. Forse non sa dove si trova, o preferisce subire lei quello che avrebbero fatto a lui. E così la massacrano. I camorristi mandati e. fare il "servizio" forse erano carichi di coca o forse dovevano essere sobri per cercare di intuire il più microscopico dettaglio. Ma è risaputo quali metodi usano per eliminare ogni sorta di resistenza, per annullare il più minuscolo afflato di umanità. Il fatto che il corpo fosse bruciato mi è sembrato un modo per cancellare le torture. Il corpo di una ragazza seviziata avrebbe generato una rabbia cupa in tutti, e dal quartiere non si pretende consenso, ma certamente non ostilità. E allora bruciare, bruciare tutto. Le prove della morte non sono gravi. Non più gravi di qualsiasi altra morte in guerra. Ma non è sostenibile immaginare come è avvenuta quella morte, come è stata compiuta quella tortura. Così tirando con il naso il muco dal petto e sputando riuscii a bloccare le immagini nella mia mente.

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