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La pioggia ruscellava sui muri neri del tempio. L’unico segno di vita era il cavallo legato fuori, e non era il cavallo di Duefiori. Tanto per cominciare, era troppo grosso. Era un destriero bianco con gli zoccoli grandi come un piatto di portata e i finimenti di cuoio luccicanti di vistosi ornamenti d’oro. L’animale si stava godendo la sua razione di foraggio col muso infilato nella sacchetta…

Nella scena c’era qualcosa di familiare. Scuotivento cercava di ricordarsi dove l’aveva vista prima.

A ogni modo, la bestia sembrava in grado di raggiungere una bella velocità e, una volta raggiunta, di mantenerla a lungo. Scuotivento doveva soltanto scrollarsi di dosso le guardie, lottare per aprirsi la strada e lasciare l’Albero, trovare il tempio e portare via il cavallo da sotto qualunque cosa Bel-Shamharoth usasse come naso.

— Il Signore di Otto ha due ospiti a cena, sembra — disse Druellae, fissando Scuotivento. — Di chi è quel corsiero, falso mago?

— Non ho idea.

— No? Be’, non importa. Lo vedremo subito.

Agitò una mano. Il centro dell’immagine si spostò verso l’interno, sfrecciò attraverso un grande arco ottagonale e continuò lungo il corridoio. Una figura strisciava con la schiena rasente al muro. Scuotivento vide il luccichio dell’oro e del bronzo.

Impossibile sbagliarsi su quella sagoma. L’aveva vista molte volte. Il largo torace, il collo simile al tronco di un albero, la testa sorprendentemente piccola sotto il casco arruffato di capelli neri, come un pomodoro su una bara… Poteva dare un nome alla figura strisciante. Il nome era quello di Hrun il Barbaro.

Nelle terre del Mare Circolare Hrun era uno degli eroi durati più a lungo: un combattente di dragoni, uno spogliatore di templi, una spada mercenaria, il centro di ogni rissa da strada. Poteva perfino, al contrario di molti eroi conosciuti da Scuotivento, pronunciare parole di più di due sillabe, se uno gliene dava il tempo e un suggerimento o due.

Scuotivento percepiva un rumore indistinto, come di teschi saltellanti giù per i gradini di un lontano dongione. Guardò con la coda dell’occhio le guardie per vedere se l’avevano udito.

Tutta la loro limitata attenzione era concentrata su Hrun, dalla corporatura somigliante alla loro. Le loro mani posavano leggermente sulle spalle del mago.

Scuotivento si chinò di scatto, balzò all’indietro come un acrobata e si raddrizzò correndo. Udì alle sue spalle Druellae che gridava e raddoppiò la velocità.

Il cappuccio della sua tunica s’impigliò da qualche parte e si lacerò. Un driade in attesa vicino alla scala allargò le braccia con un sogghigno inespressivo rivolto alla figura che gli si precipitava incontro.

Senza rallentare, Scuotivento si chinò di nuovo, così basso da toccarsi le ginocchia con il mento, mentre un pugno grosso come un ciocco gli passava vicino all’orecchio con un sibilo.

Davanti a lui lo attendeva un gruppetto di tre uomini. Il Mago fece una giravolta, evitò un altro colpo da parte della guardia stupefatta, e tornò di corsa verso il cerchio, superando i driadi che lo inseguivano e lasciandoli scompigliati come un gioco di birilli.

Ma davanti ce n’erano ancora altri, che si facevano strada in mezzo alla folla delle femmine, battendo i pugni sui palmi callosi delle mani in attesa della lotta imminente.

— Fermati, falso mago — gli ordinò Druellae facendo un passo in avanti. Alle sue spalle, le danzatrici rapite continuavano a girare; il centro dell’immagine adesso scivolava lungo un corridoio illuminato di luce violetta.

Scuotivento esplose. — Volete piantarla! Mettiamo le cose in chiaro, va bene? Io sono un vero mago! — Batté con petulanza un piede.

— Davvero? — disse la driade. — Allora vediamo se sai fare un incantesimo.

— Uh… — cominciò Scuotivento. Il fatto era che, da quando quell’antico e misterioso incantesimo gli si era insediato nella mente, lui non era più stato capace di ricordare nemmeno la più semplice formuletta per, diciamo, ammazzare gli scarafaggi o grattarsi la schiena senza usare le mani. I maghi dell’Università Invisibile avevano cercato di spiegare la cosa con la seguente teoria: avere involontariamente mandato a memoria l’incantesimo aveva, per così dire, bloccato tutte le sue cellule di mnemonica degli incantesimi. Scuotivento era giunto a una spiegazione tutta sua della ragione per cui anche le formule magiche minori rifiutavano di rimanergli in testa per più di pochi secondi.

Avevano paura.

— Uhm… — ripeté.

— Ne basterebbe anche uno piccolo — affermò Druellae, che lo guardava mordersi le labbra dalla collera e dall’imbarazzo. A un suo cenno, si avvicinarono due driadi maschi.

L’Incantesimo scelse quel momento per balzare nella sella, temporaneamente abbandonata, della conoscenza. Scuotivento si sentiva guardato da lui, con aria di sfida.

— Conosco un incantesimo.

— Sì? Sei pregato di pronunciarlo — ribatté Druellae.

Scuotivento era incerto se osare; benché l’Incantesimo cercasse d’impadronirsi della sua lingua, lui si opponeva. — Hai detto che potevi leggere nella mia mente — borbottò. — Allora leggi.

Lei avanzò, fissandolo negli occhi con espressione beffarda. Il sorriso le si gelò sulle labbra. Sollevò le mani a proteggersi e indietreggiò, rannicchiandosi. Dalla gola le uscì un suono di vero e proprio terrore.

Scuotivento si guardò intorno. Anche le altre driadi arretravano. Che aveva dunque fatto? Evidentemente, qualcosa di terribile.

Ma, per sua esperienza, era soltanto questione di tempo prima che l’universo ritrovasse il suo equilibrio e a lui succedessero le solite cose tremende. Si trasse indietro, si riparò tra le driadi che con il loro ruotare creavano il cerchio magico, e attese di vedere quale sarebbe stata la prossima mossa di Druellae.

— Prendetelo — gridò lei. — Portatelo lontano dall’Albero e uccidetelo!

Scuotivento si girò e si precipitò in avanti.

Attraverso il centro del cerchio.

Vi fu un vivido lampo.

Vi fu il buio improvviso.

Vi fu un’ombra violetta vagamente rassomigliante a Scuotivento, che si ridusse a un punto e si spense.

Non vi fu assolutamente più nulla.

Hrun il Barbaro scivolava silenziosamente lungo i corridoi, illuminati da una luce di un viola così intenso da essere quasi nero. Non si sentiva più confuso. Chiaramente quello era un tempio magico, e ciò spiegava tutto.

Spiegava perché quello stesso pomeriggio, mentre cavalcava nella foresta oscura, avesse scorto sul bordo del sentiero una cassa dall’aspetto invitante: il coperchio aperto metteva in mostra una grande quantità d’oro. Ma quando lui era balzato giù da cavallo per avvicinarsi, alla cassa erano spuntate le gambe ed era trottata via per fermarsi qualche metro più in là.

Adesso, dopo parecchie ore d’irritante inseguimento, l’aveva persa in quei tunnel dalla luce infernale. Tutto sommato, le sculture sgradevoli e, di tanto in tanto, gli scheletri smembrati davanti ai quali Hrun passava, non gli incutevano nessun timore. Questo era in parte dovuto al fatto che lui non era eccezionalmente sveglio mentre era allo stesso tempo eccezionalmente privo di immaginazione. E in parte perché sculture strane e tunnel perigliosi rientravano nel suo lavoro quotidiano. Trascorreva gran parte del suo tempo in situazioni simili, a cercare oro o demoni o vergini in pericolo e a liberarli rispettivamente dei proprietari, della vita o di almeno una delle cause delle loro angustie.

Osserva Hrun, mentre attraversa con un balzo felino l’imbocco di un tunnel sospetto. Anche in questa luce viola la sua pelle riluce come rame. C’è parecchio oro sulla sua persona, sotto forma di anelli per i polsi e le caviglie, ma altrimenti l’eroe è nudo a eccezione di un perizoma di pelle di leopardo. L’ha presa nelle umide foreste di Howondaland, dopo avere ammazzato il suo proprietario con i denti.

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