IL POTERE DELL’OTTO
Proemio
Il mondo del disco offre visioni molto più impressionanti di quelle esistenti negli universi costruiti da Creatori dotati di minore immaginazione ma di maggiori attitudini meccaniche.
Sebbene il sole del disco sia soltanto un piccolo satellite orbitante, dai rilievi poco più alti degli archetti del croquet, tale leggero svantaggio viene compensato dalla vista strabiliante della Grande A’Tuin la Tartaruga sul cui guscio antico e crivellato dalle meteore riposa il disco. A volte, nel suo lento viaggio attraverso le sponde dell’Infinito, Essa muove la testa delle dimensioni di un intero paese per ghermire una cometa che passa.
Ma forse la visione più impressionante di tutte (se non altro perché quasi ogni cervello, di fronte alla galattica enormità di A’Tuin, si rifiuta di crederlo) è la smisurata cascata, il Rimfall, dove i mari del disco ribollono senza posa e si gettano oltre il Bordo nello spazio. O forse è il Rimbow, l’arcobaleno di otto colori che circonda il mondo ed è sospeso nell’aria caliginosa sopra la Cascata. L’ottavo colore è l’ottarino, causato dall’effetto dispersivo della forte luce solare su un campo di grande intensità magica.
O forse, ancora, la visione più meravigliosa è il Centro, al centro del disco. Là, una guglia di ghiaccio verde alta sedici chilometri si erge tra le nuvole e sostiene in cima il reame di Dunmanifestin, la dimora degli dei del disco. Questi, malgrado lo splendore del mondo che si stende sotto di loro, sono raramente soddisfatti. È imbarazzante sapere di essere dio di un mondo che esiste soltanto perché ogni curva d’improbabilità deve avere una fine, specie quando è possibile scrutare nelle altre dimensioni mondi i cui Creatori possiedono più attitudine meccanica che immaginazione. Non c’è quindi da meravigliarsi se gli dei del disco trascorrono più tempo a litigare che ad esercitare l’onniscienza.
In quel giorno particolare Blind Io, divenuto il capo degli dei a forza di costante vigilanza, sedeva, il mento appoggiato sulla mano, a fissare la scacchiera sul tavolo di marmo rosso di fronte a lui. Blind (cieco) Io doveva il suo nome al fatto che, al posto delle orbite, c’erano soltanto due membrane. Gli occhi, di cui possedeva un numero impressionante, avevano una vita semi-indipendente tutta loro. Di solito parecchi si libravano sopra il tavolo.
La scacchiera consisteva in una mappa accuratamente incisa del mondo-disco, sulla quale erano stampati dei quadrati. Di questi, alcuni erano occupati da pezzi squisitamente modellati. Uno spettatore, per esempio, avrebbe riconosciuto in due di essi le sembianze di Bravd e di Donnola. Altri rappresentavano diversi eroi e campioni, di cui il disco aveva una scorta più che considerevole.
Oltre a Io, prendevano parte al gioco Offler il Dio Coccodrillo, Zefiro, il dio delle lievi brezze, il Fato e la Signora. Adesso che i giocatori minori erano stati eliminati dal Gioco, spirava un’aria di grande concentrazione. Tra i primi perdenti c’era stato il Caso che aveva guidato il suo eroe in una dimora piena di giganti armati (risultato di un tiro fortunato di Offler), e poco dopo la Notte aveva incassato i suoi gettoni, adducendo un appuntamento con il Destino. Diverse deità minori si erano avvicinate e sbirciavano da sopra le spalle dei giocatori.
Certi avevano scommesso che la Signora sarebbe stata la prossima ad abbandonare la partita. Il suo ultimo campione di una certa importanza era adesso un pizzico di potassa nelle rovine ancora fumanti di Ankh-Morpork, né lei disponeva più di pezzi da promuovere in prima fila.
Blind Io prese in mano il contenitore dei dadi, un teschio i cui vari orifizi erano stati turati con rubini, e lanciò sul tavolo tre cinque, fissando sulla Signora alcuni dei suoi occhi.
Lei sorrise. Gli occhi della Signora erano di un verde brillante, senza iride né pupilla, animati da uno scintillio interiore.
Il silenzio regnava nella stanza mentre lei frugava nella sua scatola di pezzi e ne estraeva dal fondo un paio che posò sulla scacchiera con un suono secco. Il resto dei giocatori, come un solo Dio, allungarono il collo per guardarli.
— Un fmago frinegato e una fpecie di ffunzionnario — disse Offler il Dio Coccodrillo, impacciato come al solito dalle sue zanne. — Bene, fdavero! — Con la zampa spinse al centro del tavolo una pila di ossi bianchi che fungevano da gettoni.
La Signora fece un lieve cenno di assenso con la testa. Prese il bicchiere dei dadi e lo tenne fermo come una roccia, tuttavia tutti gli Dei udirono i tre cubi tintinnare. Poi li lanciò sul tavolo.
Un sei. Un tre. Un cinque.
Qualcosa, però, accadeva al cinque. Conciato male dalla fortuita collisione di vari miliardi di molecole, il dado ricadde sullo spigolo, ruotò delicatamente e si posò. Sette.
Blind Io prese il cubo e contò i lati.
— Via — disse stancamente. — Non barare.
Il potere dell’otto
La strada da Ankh-Morpork a Chirm è alta, bianca e tortuosa, un tratto di trenta leghe di buche e rocce affioranti. che si avvolge intorno alle montagne, affonda in fresche verdi vallate coperte di agrumeti, attraversa burroni folti di liane su scricchiolanti ponti di corde, e in genere è più pittoresca che utile.
Pittoresca. Era quella una parola nuova per Scuotivento il mago (studente fallito di magia. Università Invisibile). Era una delle tante scoperte da quando aveva lasciato le rovine carbonizzate di Ankh-Morpork. "Strano" era un’altra. "Pittoresco", decise dopo un’attenta osservazione dello scenario che aveva ispirato Duefiori a usare quel termine, voleva dire un paesaggio orrendamente ripido. "Strano", se usato per descrivere i villaggi di tanto in tanto attraversati, voleva dire malattie e rovina.
Duefiori era un turista, il primo mai visto nel mondo-disco. "Turista", aveva concluso Scuotivento. voleva dire "idiota".
Mentre cavalcavano tranquilli nell’aria profumata di timo e ronzante di api, Scuotivento rifletteva sulle esperienze degli ultimi giorni. Se il piccolo straniero era chiaramente pazzo, era però generoso e meno pericoloso di metà della gente incontrata in città. A Scuotivento era piuttosto simpatico. Il contrario sarebbe stato come prendere a calci un cucciolo.
Duefiori era solito mostrare un grande interesse per la teoria e la pratica della magia.
— Ma sembra tutto, be’, alquanto inutile — dichiarò. — Sapete, ho sempre pensato che un mago doveva semplicemente limitarsi a pronunciare le parole magiche. Senza tutto questo noioso impararsi a memoria.
Scuotivento, di malagrazia, si dichiarò d’accordo. Cercò di spiegare che una volta la magia era stata libera e senza norme, ma che al tempo dei tempi, era stata regolamentata dagli Antichi che l’avevano costretta a ubbidire, tra l’altro, alla Legge di Conservazione della Realtà. Secondo la quale lo sforzo necessario per raggiungere un fine doveva essere lo stesso, senza tener conto dei mezzi usati. In parole povere ciò significava che, ad esempio, creare l’illusione di un bicchiere di vino era relativamente facile, dato che comportava il semplice spostamento delle composizioni di luce. D’altro lato, sollevare di pochi centimetri in aria un bicchiere di vino vero richiedeva diverse ore di preparazione sistematica se il mago voleva impedire che il semplice potere di levitazione gli facesse schizzare il cervello fuori dalle orecchie. Aggiunse pure che si poteva ancora trovare un po’ dell’antica magia allo stato naturale riconoscibile, per gli iniziati, dall’ottava forma impressa alla struttura cristallina dello spazio-tempo. Così c’erano l’ottirone metallico e il gas ottogeno. Entrambi irradiavano pericolose quantità d’incantesimo puro.
— È tutto assai deprimente — concluse.
— Deprimente?
Scuotiventosi girò sulla sella a guardare il Bagaglio, che trotterellava adagio sulle sue zampette, di tanto in tanto aprendo e richiudendo il coperchio per acchiappare le farfalle. Sospirò.