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Non ce la fece. Era a metà percorso quando il Bagaglio balzò fuori dall’ammasso di schegge, si aprì fulmineo a mezz’aria e si richiuse di scatto.

Ricadde più leggero. Scuotivento vide socchiudersi di nuovo il coperchio. Quel tanto da permettere a una lingua, larga come una foglia di palma e rossa come il mogano, di lappare qualche penna sparsa.

Nello stesso momento il gigantesco lampadario rotondo cadde dal soffitto e la stanza piombò nel buio. Scuotivento si rannicchiò come una molla, fece un salto e, afferrata una trave, si issò, con una forza che sorprese lui stesso, nella relativa sicurezza del tetto.

— Eccitante, no? — gli disse una voce all’orecchio.

In basso, ladri, assassini, troll e mercanti si resero conto, quasi contemporaneamente, di trovarsi in un locale dal pavimento che le monete d’oro rendevano pericolosamente scivoloso. Inoltre c’era qualcosa, tra le ombre fattesi d’improvviso minacciose nella semioscurità, di assolutamente orribile. Si precipitarono come un sol uomo verso la porta di cui, però, nessuno di loro ricordava la posizione esatta.

In alto al di sopra del caos, Scuotivento guardava Duefiori.

— Siete stato voi a far venire giù il lampadario?

— Si.

— Come mai siete quassù?

— Ho pensato fosse meglio togliermi di mezzo.

Scuotivento non sapeva cosa dire. Duefiori aggiunse: — Una autentica rissa! Meglio di qualunque cosa avevo immaginato! Credete che dovrei ringraziarli? Oppure siete voi che l’avete inscenata?

L’altro lo guardò attonito e disse cupo: — Penso che faremmo meglio a scendere adesso. Se ne sono andati tutti.

Trascinò Duefiori per il pavimento ingombro e su per la scala. Si ritrovarono fuori che la notte era quasi terminata. C’era ancora qualche stella ma la luna era tramontata e all’orizzonte baluginava un chiarore grigiastro. Ciò che importava di più, la strada era deserta.

Scuotivento annusò l’aria. — Sentite l’odore del petrolio? — chiese.

In quel momento Giunco uscì dall’ombra e gli fece lo sgambetto.

Il Grosso si inginocchiò in cima alla scala della cantina e frugò nella scatola contenente l’esca e l’acciarino. Era umida.

— Ammazzerò quel dannato gatto — brontolò, e cercò a tentoni la scatola di riserva che di solito stava su un ripiano vicino alla porta. Non c’era. Il Grosso disse una parolaccia.

Uno stoppino acceso comparve a mezz’aria.

Ecco, prendi questo.

— Grazie — disse il Grosso.

— Prego.

Il Grosso andò a gettare lo stoppino giù per la scala, ma la sua mano si arrestò a mezz’aria. Guardò lo stoppino e corrugò la fronte. Poi sì voltò e lo sollevò per illuminare la scena. Non che facesse molta luce, ma diede all’ombra una forma.

— Oh, no — sussurrò l’uomo.

— Ma sì — disse la Morte.

Scuotivento rotolò. Per un momento pensò che Giunco lo infilzasse lì a terra. Ma era peggio. Aspettava che lui si alzasse.

— Vedo che hai una spada, mago — gli disse a bassa voce. — Ti suggerisco di metterti in piedi e vedremo come la saprai usare.

Scuotivento si alzò il più lentamente possibile e si sfilò dalla cintura la corta spada che aveva tolto alla guardia poche ore prima. Gli sembravano cent’anni. Era un arnese corto e smussato, paragonato allo stocco di Giunco, sottile come un capello.

— Ma io non so usare una spada — gemette.

— Bene.

— Sai che è impossibile uccidere i maghi con armi taglienti? — disse ancora Scuotivento disperato.

Giunco sorrise freddamente. — Così ho sentito. Non vedo l’ora di provarlo. — E fece un affondo.

Scuotivento parò il colpo per mera fortuna, ritirò di scatto la mano, deviò la seconda stoccata per coincidenza e la terza gli trapassò la tunica all’altezza del cuore.

Si udì un tintinnio.

Il ringhio di trionfo di Giunco gli si strozzò in gola. Estrasse la spada e di nuovo si scagliò contro il mago, irrigidito dal terrore e dalla colpa. Ci fu un altro tintinnio e dall’orlo della tunica del mago cominciarono a cadere delle monete d’oro.

— Così perdi oro, eh? — sibilò Giunco. — Ma hai dell’oro nascosto in quella tua barba rada, tu piccolo…

Mentre tirava indietro la spada per infliggere l’ultimo colpo, il cupo bagliore che era andato aumentando all’ingresso del Tamburo Rotto guizzò, si affievolì e divampò in una ruggente palla di fuoco che fece oscillare in fuori i muri della taverna e scaraventò il tetto a una trentina di metri in aria prima di erompere in una massa di tegole arroventate.

Giunco, innervosito, guardava le fiamme divampanti. E Scuotivento balzò in avanti. Si chinò sotto il braccio del ladro che reggeva la spada e menò con la sua un fendente così maldestro che colpì l’uomo di piatto, ma anche a lui cadde di mano la spada. Piovevano scintille e goccioline di olio infiammato. Giunco afferrò Scuotivento per il collo con tutte e due le mani guantate spingendolo giù.

— Sei tu che hai fatto questo! — gridò. — Tu e la tua cassa di trucchi!

Trovò con il pollice la trachea del suo avversario "Ci siamo" pensò il mago. "Dovunque vada, non può essere peggio di qui…"

— Scusatemi — disse Duefiori.

Scuotivento sentì allentarsi la stretta. Ora Giunco si tirava su lentamente, sul viso un’espressione di puro odio.

Un tizzone cadde sul mago. Lui se ne liberò in fretta e si rimise in piedi.

Duefiori, alle spalle di Giunco, gli premeva nelle reni la punta della sua stessa spada. Scuotivento strinse gli occhi. Infilò la mano nella tunica e la ritirò chiusa a pugno.

— Non muoverti — ordinò.

— Va bene così? — chiese ansiosamente Duefiori.

— Dice che se ti muovi ti infilza il fegato — tradusse liberamente Scuotivento.

— Ne dubito — disse Giunco.

— Vuoi scommettere?

— No.

Mentre Giunco si preparava a rivoltarsi contro il turista, Scuotivento gli sferrò un pugno sulla mascella. Per un attimo l’altro lo guardò stupito, poi crollò nel fango.

Il mago aprì il pugno e il rotolo di monete d’oro gli scivolò tra le dita frementi. Abbassò gli occhi sul ladro piegato a terra.

— Soffri pure — ansimò.

Un altro tizzone gli cadde sul collo e lui urlò dal dolore. Le fiamme avvolgevano i tetti delle case sui due lati della strada. Tutto intorno la gente buttava i suoi averi dalle finestre e trascinava i cavalli fuori dalle stalle fumanti. Un’altra esplosione nel vulcano rovente che era diventato il Tamburo fece volare in aria un’intera mensola di marmo del caminetto.

— La Porta Widdershin è la più vicina — gridò Scuotivento per farsi sentire al di sopra del crepitio delle travi che crollavano. — Venite!

Afferrò per un braccio Duefiori riluttante a muoversi e lo trascinò giù per la strada.

— Il mio Bagaglio…

— Accidenti al vostro bagaglio! Rimanete ancora qui e andrete dove non c’è bisogno di bagaglio! — Venite! — ripeté.

Proseguirono in mezzo alla folla di gente spaventata che lasciava la zona. Il mago respirava a pieni polmoni l’aria fresca dell’alba. Era perplesso.

— Sono sicuro che tutte le candele si erano spente — disse. — Allora come mai il Tamburo è andato a fuoco?

— Non lo so- gemette Duefiori. — È terribile, Scuotivento. Tanto più che ci intendevamo tanto bene.

— Vi intendevate bene?

— Sì, una compagnia simpaticissima. La lingua rappresentava un po’ un ostacolo, ma insistevano talmente perché mi unissi a loro, che non accettavano di sentirsi rispondere di no… davvero persone cordiali…

Scuotivento fece per correggerlo, ma si rese conto di non sapere come cominciare.

— Sarà un colpo per il vecchio Grosso — continuò Duefiori. — Era anche un tipo accorto. Ho ancora il rhinu che ha pagato come primo premio.

Scuotivento non conosceva il significato della parola premio, ma la sua mente lavorava in fretta.

— Avete assi-cura-to il Tamburo? Avete scommesso con il Grosso che non avrebbe preso fuoco?

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