Con tutte le facoltà della sua arte e con tutta la forza del suo cuore ardente, Ged si sforzò di chiudere quella porta, di rendere nuovamente integro il mondo. E alla sua voce, al comando delle sue mani che plasmavano, le rocce si accostarono, faticosamente, cercando d’incontrarsi, di reintegrarsi. Ma contemporaneamente la luce si affievoliva, si affievoliva, svanendo dalle sue mani e dal suo volto, estinguendosi dal bastone di tasso, finché rimase soltanto un minuscolo barlume. In quella luce fievole, Arren vide che la porta era ormai quasi chiusa.
Il cieco sentì le rocce muoversi sotto le sue mani, le sentì unirsi; e sentì anche l’arte e il potere che si esaurivano… E all’improvviso urlò «No!», si svincolò dalla stretta di Arren, si avventò, e afferrò Ged nella sua stretta cieca e possente. Trascinatolo al suolo sotto il proprio peso, gli serrò le mani intorno alla gola per strangolarlo.
Arren brandì alta la spada di Serriadh e abbatté la lama, con un colpo duro e deciso, sul collo piegato sotto il groviglio dei capelli.
Lo spirito vivente ha un peso nel mondo dei morti, e l’ombra della sua spada ha un filo tagliente. La lama aprì una grande ferita, tranciando la spina dorsale di Pannocchia. Un sangue nero sgorgò a fiotti, illuminato dalla luce della spada.
Ma è inutile uccidere un morto: e Pannocchia era morto, morto da molti anni. La ferita si richiuse, inghiottendo il sangue. Il cieco si erse, altissimo, tendendo le mani brancolanti verso Arren, col volto contratto dal furore e dall’odio come se avesse percepito solo in quel momento chi era il suo vero nemico e rivale.
Era così orribile vedere quella guarigione da un colpo mortale, quell’incapacità di morire, più orribile di ogni morte, che una rabbia di odio crebbe nell’animo di Arren, una furia frenetica: alzata la spada colpì di nuovo, un colpo tremendo, pieno, dall’alto in basso. Pannocchia si accasciò col cranio spaccato e la faccia mutata in una maschera di sangue; tuttavia Arren si avventò subito su di lui e colpì di nuovo prima che la ferita si richiudesse, colpì e colpì per uccidere.
Accanto a lui Ged, sollevandosi faticosamente sulle ginocchia, pronunciò una parola.
Al suono della sua voce Arren si arrestò, come se una mano gli avesse afferrato il braccio che reggeva la spada. Il cieco, che stava incominciando ad alzarsi, restò immobile. Ged si levò in piedi: barcollava un poco. Quando riuscì a tenersi eretto, si voltò verso la parete di roccia.
— Reintegrati! — disse con voce chiara, e col bastone tracciò in linee di fuoco, attraverso la porta di pietre, una figura: la runa Agnen, la Runa della Fine, che chiude le strade e che viene incisa sui coperchi delle bare. E tra i macigni non ci fu più un varco o un vuoto. La porta era chiusa.
Il suolo della Terra Arida tremò sotto i loro piedi, e attraverso l’immutabile cielo vuoto corse un lungo rombo rotolante di tuono e si perse in lontananza.
— Per la parola che non verrà pronunciata fino alla fine del tempo io ti ho chiamato. Per la parola che venne pronunciata alla creazione delle cose, ora ti lascio andare. Vai libero! — E, piegatosi sul cieco inginocchiato, Ged gli mormorò all’orecchio, tra i capelli bianchi e scarmigliati.
Pannocchia si alzò. Si guardò intorno, lentamente, con occhi che vedevano. Guardò Arren e poi Ged. Non disse una parola, ma li guardò con occhi cupi. Non c’era ira sul suo volto, né odio, né angoscia. Lentamente si voltò, si allontanò lungo il letto del Fiume Inaridito, e ben presto scomparve.
Non c’era più luce sul bastone di Ged o sul suo volto. Stava nella tenebra. Quando Arren gli si avvicinò, si afferrò al suo braccio per sorreggersi. Per un momento, un singhiozzo convulso lo squassò. — È fatto — disse. — È tutto finito.
— È fatto, mio amato signore. Dobbiamo andare.
— Sì. Dobbiamo andare a casa.
Ged appariva frastornato o esausto. Seguì Arren lungo il letto del fiume, lentamente, incespicando, procedendo a fatica tra le pietre e i macigni. Arren non lo lasciò. Quando le rive del Fiume Inaridito divennero più basse e il suolo meno scosceso, si voltò nella direzione da cui erano venuti, il lungo declivio informe che conduceva in alto, nell’oscurità. Poi si girò di nuovo.
Ged non disse nulla. Appena si erano fermati, si era lasciato cadere su un macigno di lava, sfinito, a testa bassa.
Arren sapeva che la strada da cui erano venuti era chiusa, per loro. Potevano soltanto andare avanti. Dovevano percorrere l’intera strada. Troppo lontano non è lontano abbastanza, pensò. Alzò gli occhi verso i neri picchi, freddi e silenti sotto le immobili stelle terrificanti; e ancora una volta l’ironica e beffarda voce della sua volontà parlò dentro di lui, implacabile: — Intendi fermarti a metà strada, Lebannen?
Si accostò a Ged e disse, dolcemente: — Dobbiamo proseguire, mio signore.
Ged non disse nulla, ma si alzò.
— Dobbiamo passare tra le montagne, credo.
— Tu conosci la strada, ragazzo — replicò Ged, con un bisbiglio rauco. — Aiutami.
Perciò si avviarono su per i pendii di polvere e di scorie, tra le montagne, e Arren aiutò il suo compagno come poteva. Era buio, nelle gole, e lui doveva cercare la strada a tentoni, ed era difficile, nel contempo, sostenere Ged. Camminare era faticoso; ma quando dovevano inerpicarsi, via via che i declivi diventavano più erti, era addirittura penoso. Le rocce erano scabre, e scottavano le mani come ferro fuso. Eppure faceva freddo, sempre più freddo, via via che salivano. Il contatto di quella terra era un tormento. Scottava come carboni ardenti: un fuoco bruciava entro le montagne. Ma l’aria era sempre fredda e sempre buia. Non si udiva il minimo suono, e non spirava alito di vento. Le rocce aguzze si sgretolavano sotto le loro mani, cedevano sotto i loro piedi. Neri e ripidi, gli speroni e gli abissi salivano davanti a loro e discendevano accanto a loro nella tenebra. Più indietro, laggiù, il regno dei morti era invisibile. Più avanti, lassù, i picchi e le rocce si stagliavano contro le stelle. E nulla si muoveva in tutta la lunghezza e l’ampiezza di quelle montagne nere, eccettuate le due anime mortali.
Spesso Ged inciampava o metteva il piede in fallo, per la stanchezza. Respirava sempre più a fatica, e quando le sue mani urtavano contro le rocce soffocava gemiti di dolore. Sentirlo lamentarsi era un tormento, per il cuore di Arren. Lui cercava d’impedire che cadesse: ma spesso la via era troppo stretta perché potessero procedere affiancati, oppure lui doveva andare avanti per cercare appigli sicuri. E alla fine, su un alto pendio che saliva verso le stelle, Ged scivolò e cadde carponi, e non si rialzò.
— Mio signore — disse Arren, inginocchiandosi accanto a lui, e poi pronunciò il suo nome: — Ged.
L’altro non si mosse, non rispose.
Arren lo raccolse tra le braccia e lo portò su per quell’alto pendio. Alla sommità c’era un breve tratto di terreno pianeggiante. Arren adagiò il fardello e si lasciò cadere al suolo accanto a lui, sfinito e sofferente, senza speranza. Era la sommità del passo tra i due picchi neri, verso il quale si era diretto faticosamente. Non si poteva procedere: all’estremità del tratto pianeggiante c’era il ciglio di un precipizio. Più oltre la tenebra si stendeva all’infinito, e le minuscole stelle pendevano immobili nel nero abisso del cielo.
La resistenza può durare più a lungo della speranza. Arren si trascinò avanti, ostinatamente, quando riuscì a farlo. Guardò oltre il ciglio della tenebra. E sotto di sé, poco più in basso, vide la spiaggia di sabbia eburnea; le onde bianche e color ambra vi si frangevano tra la spuma, e dall’altra parte del mare il sole stava tramontando in una foschia dorata.
Arren si voltò verso la tenebra. Tornò indietro. Sollevò Ged come poteva e si trascinò finché non poté più andare avanti. Là tutte le cose cessarono di esistere: la sete, e la sofferenza, e l’oscurità, e la luce del sole, e il suono delle onde che si frangevano.