E così quella sera, fino a quando venne buio, e per tutto il lungo giorno dorato che seguì, e nei giorni successivi, Arren nuotò e parlò e lavorò con i giovani della zattera di Astro. E tra tutti gli eventi del viaggio, da quel mattino dell’equinozio in cui lui e Sparviero avevano lasciato Roke, quello gli sembrava il più strano, in un certo senso: perché non aveva nulla in comune con tutto ciò che era accaduto prima, nel viaggio o in tutta la sua vita; e meno ancora aveva un nesso con quanto doveva ancora venire. La notte, quando si sdraiava per dormire in mezzo agli altri, sotto le stelle, pensava: è come se fossi morto; e questa è una vita nell’aldilà, così, nel sole, oltre l’orlo del mondo, tra i figli e le figlie del mare…
Prima di addormentarsi guardava lontano, a sud, cercando con lo sguardo la stella gialla e la costellazione della Runa della Fine, e vedeva sempre Gobardon e il triangolo più piccolo, e quello più grande: ma adesso sorgevano più tardi, e lui non riusciva a tenere aperti gli occhi fino a quando l’intera figura emergeva libera dall’orizzonte. Di notte e di giorno le zattere andavano alla deriva verso sud, ma il mare non cambiava mai perché ciò che muta sempre è immutabile; i temporali di maggio passavano, e di notte brillavano le stelle, e tutto il giorno splendeva il sole.
Arren sapeva che la vita dei Figli del Mare Aperto non poteva essere sempre vissuta in quella serenità di sogno. Chiese dell’inverno, e gli parlarono delle lunghe piogge e delle onde possenti, delle zattere che vagavano separate e andavano alla deriva nel grigiore e nell’oscurità, per settimane e settimane. L’inverno precedente, durante una tempesta di un mese, avevano scorto onde così grandi che parevano «nuvoloni», dicevano, perché non avevano mai visto le montagne. Dal dorso di un’onda si poteva vedere quella successiva, immensa, a miglia e miglia di distanza, che si precipitava verso di loro. Le zattere potevano navigare in un mare simile?, chiese Arren, e quelli risposero che sì, potevano farlo, ma non sempre. In primavera, quando si radunavano alle Strade di Baltran, mancavano due zattere, o tre, o sei…
Si sposavano giovanissimi. Granchio Azzurro, il ragazzo che portava tatuato il simbolo del suo nome, e la ragazza graziosa, Albatros, erano marito e moglie, sebbene lui avesse appena diciassette anni e lei addirittura due di meno; c’erano molti matrimoni come il loro, tra il popolo delle zattere. Molti bimbetti camminavano carponi qua e là, legati a lunghi guinzagli fissati ai quattro pali dei ripari centrali, e tutti vi rientravano nelle ore più calde, e dormivano in mucchi frementi. I bambini grandicelli badavano ai più piccoli, e gli uomini e le donne si spartivano tutto il lavoro. Tutti facevano a turno per raccogliere le grandi alghe dalle foglie brune, i nilgu delle Strade, frangiati come felci e lunghi venti o trenta braccia. Tutti lavoravano insieme, battendo il nilgu per ricavarne stoffe o intrecciandone le fibre grezze per ricavare funi e reti; pescavano e seccavano il pesce, e fabbricavano utensili con avorio di balena, e insieme sbrigavano tutte le varie mansioni. Ma c’era sempre tempo per nuotare e chiacchierare, e non c’era mai un termine fisso per ultimare un lavoro. Le ore non esistevano: c’erano soltanto notti e giorni. Dopo pochissimo tempo, Arren ebbe l’impressione di vivere sulla zattera da un periodo incalcolabile; e che Obehol fosse un sogno, e che più indietro ci fossero sogni ancora più sbiaditi, e un altro mondo nel quale lui era vissuto sulla terraferma ed era stato un principe di Enlad.
Quando, finalmente, venne convocato alla zattera del capo, Sparviero lo scrutò per qualche istante e disse: — Mi sembri l’Arren che ho visto nel Cortile della Fontana: agile come una foca dorata. Mi sembra che ti trovi bene, qui.
— Sì, mio signore.
— Ma dov’è, «qui»? Abbiamo lasciato dietro di noi i luoghi della terra. Abbiamo navigato fino a uscire dalle mappe… Molto tempo fa ho sentito parlare del Popolo delle Zattere: ma credevo che fosse solo una delle tante leggende dello Stretto Meridionale, una fantasia inconsistente. Eppure siamo stati salvati da quella fantasia: le nostre vite sono state salvate da un mito.
Parlava sorridendo, come se partecipasse alla serenità atemporale di quella vita nella luce dell’estate; ma il suo volto era scavato, e nei suoi occhi c’era una tenebra. Arren se ne accorse, e l’affrontò.
— Ho tradito… — disse, e s’interruppe. — Ho tradito la tua fiducia in me.
— In che modo?
— Là… a Obehol. Quando, per una volta, tu hai avuto bisogno di me. Eri ferito, e avevi bisogno del mio aiuto. Io non ho fatto nulla. La barca andava alla deriva, e io la lasciavo andare. Tu soffrivi, e io non ho fatto nulla per te. Ho visto la terraferma… ho visto la terraferma, e non ho neppure tentato di far virare la barca…
— Taci, ragazzo — disse il mago, con tanta fermezza che Arren ubbidì. E poi: — Dimmi cosa pensavi, allora.
— Nulla, mio signore… nulla! Pensavo che fosse inutile fare qualunque cosa. Pensavo che la tua magia fosse svanita… no, che non fosse esistita mai. Che tu mi avessi ingannato. — Il sudore sgorgò sul volto di Arren: dovette farsi forza, per continuare a parlare. — Avevo paura di te. Avevo paura della morte. Ne avevo tanta paura che non ti guardavo, perché potevi essere moribondo. Non riuscivo a pensare a nulla, se non che c’era… che per me c’era un modo per non morire, se fossi riuscito a trovarlo. Ma la vita scorreva via, come se ci fosse stata una grande ferita e ne sgorgasse il sangue… come la tua ferita. Ma questa era in ogni cosa. E io non facevo nulla, nulla: cercavo solo di nascondermi all’orrore della morte.
Arren s’interruppe, perché dire a voce alta la verità era insopportabile. Non era la vergogna a farlo tacere, ma la paura, la stessa paura. Adesso sapeva perché quella vita tranquilla fra mare e sole, a bordo delle zattere, gli sembrava l’aldilà o un sogno irreale. Perché in cuor suo sapeva che la realtà era vuota, priva di vita e di calore e di colore e di suono, priva di significato. Non c’erano altezza né profondità. Tutto quell’incantevole gioco di forme e luci e colori sul mare e negli occhi degli uomini non era altro che un gioco d’illusioni sul vuoto superficiale.
E tutto passava, e restavano soltanto il freddo e l’assenza di forme: nient’altro.
Sparviero lo stava scrutando, e lui aveva abbassato gli occhi per evitare quello sguardo. Ma inaspettatamente, nell’animo di Arren parlò una voce esile, la voce del coraggio o del sarcasmo; era arrogante e spietata, e diceva: — Vigliacco! Vigliacco! Vuoi gettar via perfino questo?
E allora alzò la testa, con un tremendo sforzo di volontà, e incontrò gli occhi del suo compagno.
Sparviero tese il braccio e gli prese la mano in una stretta dura: adesso tra loro c’era il contatto degli occhi e della carne. Disse il vero nome di Arren, che non aveva mai pronunciato: — Lebannen. — Lo ripeté: — Lebannen, tutto questo è. E tu sei. Non c’è sicurezza, e non c’è fine. La parola dev’essere udita nel silenzio; dev’esserci l’oscurità, perché si possano vedere le stelle. La danza viene sempre danzata sopra la cavità, sopra il terribile abisso.
Arren contrasse le mani e chinò la fronte, fino a premerla contro la mano di Sparviero. — Ti ho deluso — disse. — Ti deluderò ancora e deluderò me stesso. Non ho abbastanza forza!
— Tu hai abbastanza forza. — La voce del mago era tenera, ma sotto la tenerezza c’era la durezza che era emersa dalle profondità della vergogna di Arren e che adesso lo irrideva. — Ciò che tu ami, amerai. Ciò che intraprendi, lo completerai. Tu sei un realizzatore della speranza: su di te si può fare assegnamento. Ma diciassette anni non offrono una robusta armatura contro la disperazione… Rifletti, Arren. Rifiutare la morte è rifiutare la vita.
— Ma ho cercato la morte… per te e per me! — Arren alzò la testa e fissò Sparviero. — Come Sopli, che si è annegato…