In silenzio, il ragazzo ritornò ai remi. Piegò la schiena con impegno, e ben presto, poiché in quel suo corpo agile c’era una grande forza, portò la Vistacuta fuori dalla baia a mezzaluna, nel mare aperto. Regnava la lunga bonaccia meridiana, e la vela pendeva inerte. Il sole sfolgorava attraverso un velo di foschia, e le verdi vette sembravano tremolare e pulsare nel calore. Sparviero si era sdraiato sul fondo della barca, con la testa appoggiata al sedile, accanto al timone; era immobile, con le labbra e le palpebre socchiuse. Arren preferiva non guardarlo in faccia, e fissava oltre la poppa della barca. La foschia tremolava sull’acqua, come se veli di ragnatela s’intessessero nel cielo. Gli tremavano le braccia per la fatica, ma continuava a remare.
— Dove ci stai portando? — chiese Sparviero con voce rauca, sollevandosi un po’. Voltatosi, Arren vide che la baia incurvava di nuovo le verdi braccia intorno alla barca, e la bianca linea della spiaggia stava davanti a loro, e le montagne si ergevano nell’aria. Aveva girato la barca senza accorgersene.
— Non posso più remare — disse, ritirando i remi, e andò ad accovacciarsi a prua. Continuava ad avere la sensazione che Sopli fosse dietro di lui, a bordo, accanto all’albero. Avevano vissuto insieme molti giorni, e la sua morte era stata troppo improvvisa e immotivata perché lui potesse comprenderla. Tutto era incomprensibile.
La barca si dondolava sull’acqua, con la vela afflosciata. La marea, che incominciava a entrare nella baia, girò lentamente la Vistacuta di traverso rispetto alla corrente e la spinse avanti a piccoli colpetti verso la lontana linea bianca della spiaggia.
— Vistacuta - disse il mago in tono carezzevole, e aggiunse una o due parole nella Vecchia Lingua; e dolcemente la barca ondeggiò e girò la prua verso il mare, scivolando sull’acqua sfolgorante, lontano dalle braccia della baia.
Ma altrettanto dolcemente, dopo meno di un’ora, smise di avanzare, e la vela si afflosciò di nuovo. Arren si voltò indietro e vide che il suo compagno era sdraiato come prima; ma la testa era leggermente ripiegata all’indietro, e gli occhi erano chiusi.
Fino a quel momento Arren aveva provato un orrore pesante e morboso che cresceva e gli impediva di agire, come se avvolgesse il suo corpo e la sua mente in fili sottilissimi. Non trovava il coraggio di combattere contro quella paura: c’era solo una specie di cupo risentimento contro la sua sorte.
Non doveva lasciare che la barca andasse alla deriva verso le spiagge rocciose di un’isola i cui abitanti attaccavano i forestieri: questo era chiaro, nella sua mente, ma non significava molto. Cosa doveva fare, invece? Remare fino a Roke? Era perduto, irreparabilmente perduto senza speranza, nell’immensità dello stretto. Non avrebbe mai potuto riportare la barca verso una terra amichevole, con un viaggio di settimane. Poteva riuscirci solo con la guida del mago, e Sparviero era stato ferito e immobilizzato, all’improvviso e insensatamente, così com’era morto Sopli. Il suo volto era mutato, giallastro e inerte: forse stava morendo. Arren pensò che doveva portarlo sotto il tendone per ripararlo dal sole e dargli un po’ d’acqua: chi ha perso sangue deve bere. Ma da giorni era a corto d’acqua: il barile era quasi vuoto. Che importanza aveva? Tutto era inutile. La buona sorte li aveva abbandonati.
Le ore trascorsero, e il sole continuava a picchiare, e il calore grigiastro avviluppava Arren. E lui stava seduto immobile.
Un alito di frescura gli passò sulla fronte. Alzò la testa. Era sera: il sole era tramontato, e l’occaso era rosso-cupo. La Vistacuta si muoveva lentamente, spinta da una lieve brezza che veniva dall’est aggirando le scoscese coste boscose di Obehol.
Arren si mosse e si prese cura del suo compagno, sistemando un pagliericcio sotto il tendone e facendogli bere un po’ d’acqua. Fece tutte queste cose in fretta, distogliendo gli occhi dalla fasciatura, che doveva essere cambiata perché la ferita non aveva smesso completamente di sanguinare. Sparviero, illanguidito dalla debolezza, non parlava; mentre beveva avidamente chiuse gli occhi e scivolò di nuovo nel sonno, che era la sua sete più grande. Giaceva in silenzio; e quando, nell’oscurità, la brezza cadde, non venne un vento magico a sostituirla, e la barca si dondolò di nuovo pigramente sulle onde lunghe. Ma adesso le montagne che incombevano sulla destra spiccavano nere contro un cielo fulgido di stelle, e Arren restò a lungo a guardarle. I contorni delle costellazioni gli sembravano familiari, come se li avesse già visti, come se li avesse sempre conosciuti.
Quando si sdraiò per dormire si girò verso sud: e là, alta nel cielo sopra il mare vuoto, ardeva la stella Gobardon. Più sotto c’erano le due che formavano un triangolo, e sotto queste ne erano sorte tre, in linea retta, formando un triangolo ancora più grande. Poi, liberandosi dalle liquide pianure nere e argentee, ne seguirono altre due, con l’avanzare della notte; erano gialle come Gobardon, sebbene più fioche, e inclinate da destra verso sinistra alla base del triangolo. Dunque erano otto delle nove stelle che, si diceva, formavano la figura di un uomo, o la runa hardese Agnen. Agli occhi di Arren quella costellazione non sembrava affatto un uomo, a meno che fosse stranamente distorto, come avviene sempre nelle figure formate dalle stelle; ma la runa era nitida, con l’uncino e il tratto trasversale, e per completarla mancava solo l’ultimo tratto, la base, la stella che non era ancora sorta.
E mentre la cercava con lo sguardo, attendendola, Arren si addormentò.
Quando si svegliò, all’alba, la Vistacuta era stata spinta dalla deriva ancora più lontano da Obehol. La nebbia nascondeva le spiagge, rivelando solo le vette delle montagne, e si diradava in una foschia sopra le acque violette del sud, affievolendo le ultime stelle.
Arren guardò il suo compagno. Sparviero aveva il respiro irregolare, come avviene quando la sofferenza serpeggia sotto la superficie del sonno senza infrangerla. Il suo volto era vecchio e segnato, nella fredda luce senza ombre. Mentre lo guardava, Arren vide un uomo al quale non restavano più potere né magia né forza, e neppure la giovinezza: più nulla. Non aveva salvato Sopli, non aveva distolto da sé la lancia. Li aveva portati fra i pericoli e non li aveva salvati. Adesso Sopli era morto, e Sparviero era moribondo, e Arren sarebbe morto: tutto a causa di quell’uomo, e invano, per niente.
Perciò Arren lo guardava con i limpidi occhi della disperazione e non vedeva nulla.
Non rammentava più la fontana sotto l’albero di rowan, o la bianca luce incantata nella nebbia, a bordo della nave dei razziatori di schiavi, o le piantagioni esauste della Casa dei tintori. Né si ridestava in lui l’orgoglio o l’ostinazione della volontà. Guardò l’alba ascendere sul mare tranquillo, dove le onde lunghe e basse correvano, colorate di pallido ametista, ed era tutto come un sogno, sbiadito, senza la presa e il vigore della realtà. E nel profondo del sogno e del mare c’era il nulla… una lacuna, un vuoto. La profondità non c’era.
La barca si muoveva lenta, irregolarmente, seguendo l’umore capriccioso del vento. Più indietro, i picchi di Obehol rimpicciolirono, neri contro il sole che sorgeva; e da quella direzione veniva il vento, che portava la barca lontano dall’isola, lontano dal mondo, fuori, sul mare aperto.