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Dopo un po’, Sparviero ritornò accanto a lui attraverso la verde ombra della piantagione. Nessuno dei due parlò; procedettero a fianco a fianco. Era già molto caldo; la pioggia della notte precedente si era prosciugata, e la polvere si sollevava dalla strada sotto i loro passi. Prima, quel giorno era parso squallido e insulso ad Arren, quasi fosse contagiato dai suoi sogni: ma adesso trovava piacere nel morso della luce del sole e nel sollievo dell’ombra, e si compiaceva di camminare senza chiedersi quale fosse la loro destinazione.

E fu bene che fosse così, perché non conclusero nulla. Il pomeriggio venne impiegato a discorrere con gli uomini che lavoravano nelle cave delle argille colorate, e a mercanteggiare l’acquisto di pezzetti di quella che veniva presentata come pietra emmel. Mentre tornavano lentamente verso Sosara, col sole del tardo pomeriggio che batteva loro sulla testa e sul collo, Sparviero osservò: — È malachite azzurra: ma credo che neppure a Sosara capiranno la differenza.

—  Sono molto strani, qui — disse Arren. — È sempre così con tutto: non conoscono la differenza. Come ciò che uno di loro ha detto al sindaco, ieri sera: «Non sapresti riconoscere il vero azzurro dal fango blu…». Si lagnano dei tempi grami, ma non sanno quando hanno avuto inizio; non conoscono neppure la differenza fra un artigiano e un incantatore, tra i manufatti e la magia. È come se non avessero in mente una netta distinzione tra le linee e i colori e le cose. Per loro, è tutto uguale: è tutto grigio.

—  Sì — disse il mago, pensieroso. Continuò a camminare per un po’, con la testa aggobbita tra le spalle, come un falco; sebbene fosse basso di statura, camminava a lunghi passi. — Cos’è che gli manca?

Arren rispose, senza esitazioni: — La gioia della vita.

—  Sì — disse di nuovo Sparviero, accettando l’affermazione di Arren e considerandola per lunghi istanti. — Sono lieto — disse alla fine, — che tu sappia pensare per me, ragazzo… Mi sento stanco e intontito. Ho il cuore stretto fin da stamattina, quando abbiamo parlato con la donna che era Akaren. Non mi piacciono gli sprechi e la distruzione. Non voglio un nemico. Se devo avere un nemico, non voglio cercarlo e trovarlo e incontrarlo… Se si deve andare in cerca di qualcosa, il premio dev’essere un tesoro, non qualcosa di detestabile.

—  Un nemico, mio signore? — chiese Arren.

Sparviero annuì.

—  Quando quella donna ha parlato del Grande Uomo, del Re delle Ombre…?

Sparviero annuì di nuovo. — Credo di sì — disse. — Credo che dovremo trovare non soltanto un luogo ma una persona. Ciò che avviene su quest’isola è malefico, malefico: questa perdita dell’arte e dell’orgoglio, questa assenza di gioia, questo spreco. È l’opera di una volontà maligna. Ma è una volontà che neppure si cura di tutto questo, che non si accorge neppure di Akaren o di Lorbanery. La pista che cerchiamo è una pista di devastazione, come se seguissimo un carro sfuggito al controllo, giù lungo il declivio di una montagna, e lo vedessimo dare l’avvio a una valanga.

—  Lei… Akaren… potrebbe dirti qualcosa di più di questo nemico… chi è e dov’è, o che cosa è?

—  Adesso no, ragazzo — rispose il mago, con voce sommessa ma piuttosto amara. — Senza dubbio avrebbe potuto farlo. Nella sua demenza c’era ancora un po’ di magia. Anzi, la sua demenza era la sua magia. Ma non potevo costringerla a rispondermi. Soffriva troppo.

E proseguì, con la testa aggobbita tra le spalle, come se lui stesso soffrisse e desiderasse evitare quel dolore.

Arren si voltò udendo uno scalpiccio di piedi sulla strada, dietro di loro. C’era un uomo che li stava rincorrendo: era molto lontano, ma guadagnava rapidamente terreno. La polvere della strada e i lunghi capelli ispidi formavano aureole rosse intorno a lui, nella luce del tramonto, e la sua lunga ombra spiccava balzi fantastici lungo i tronchi e i filari delle piantagioni che fiancheggiavano la strada. — Ascoltate! — gridò. — Fermatevi! Ho trovato! Ho trovato!

Li raggiunse, correndo. La mano di Arren volò di scatto dove avrebbe dovuto esserci l’elsa della spada, e poi dove avrebbe dovuto esserci il pugnale perduto, e quindi si strinse a pugno, in un mezzo secondo. Con una smorfia, si fece avanti. L’uomo era di tutta la testa più alto di Sparviero, e aveva le spalle ampie: un pazzo ansimante e delirante, con gli occhi stralunati. — Ho trovato! — continuava a ripetere, mentre Arren, cercando d’intimidirlo con un tono e un atteggiamento severi e minacciosi, diceva: — Cosa vuoi? — L’uomo tentò di girargli intorno per avvicinarsi a Sparviero; Arren gli si parò di nuovo davanti.

—  Tu sei il Tintore di Lorbanery — disse Sparviero.

Allora Arren si rese conto che da parte sua era stata una sciocchezza tentare di proteggere il compagno: e si scostò, togliendosi di mezzo. Perché, a quelle sei parole del mago, il pazzo smise di ansimare e di contrarre le grossi mani macchiate: i suoi occhi si acquietarono. Chinò il capo in segno di assenso.

—  Ero il tintore — disse. — Ma ora non so più tingere. — Poi guardò di sottecchi Sparviero e sogghignò; scosse la testa dagli irti capelli rossi e e impolverati. — Tu hai portato via il nome a mia madre — disse. — Adesso io non la conosco, e lei non conosce me. Mi vuole ancora abbastanza bene, ma mi ha lasciato. È morta.

Arren si sentì stringere il cuore, ma vide che Sparviero si limitava a scuotere leggermente la testa. — No, no — disse il mago. — Non è morta.

—  Ma morirà. Morirà.

—  Sì. È una conseguenza del fatto di essere vivi — osservò il mago. Il Tintore parve riflettere per lunghi istanti su quel concetto; poi si avvicinò allo Sparviero, l’afferrò per le spalle e si chinò su di lui. Si mosse con tanta rapidità che Arren non riuscì a impedirglielo: ma si accostò, e perciò lo sentì mormorare: — Ho trovato la breccia nella tenebra. Ci stava il re. La vigila: la governa. Aveva in mano una piccola fiamma, una minuscola candela. Vi ha soffiato sopra, e si è spenta. Poi vi ha soffiato sopra di nuovo, e si è riaccesa. Si è riaccesa!

Sparviero non protestò per il modo in cui l’uomo lo teneva stretto, mormorando. Chiese, semplicemente: — Dov’eri, quando l’hai visto?

—  A letto.

—  Sognavi?

—  No.

—  Oltre il muro?

—  No — disse il Tintore, in tono improvvisamente sobrio, e come se si sentisse a disagio. Lasciò andare il mago, e indietreggiò di un passo. — No, io… Non so dov’è. L’ho trovato. Ma non so dov’è.

—  È quello che vorrei sapere — disse Sparviero.

—  Io posso aiutarti.

—  Come?

—  Tu hai una barca. Ti è servita per venire qui, e proseguirai. Andrai a occidente? Quella è la strada. La strada verso il luogo da dove lui è venuto. Dev’esserci un luogo, un luogo qui, perché lui è vivo… non solo gli spiriti, gli spettri, che vengono oltre il muro, non così… non si può portare null’altro che le anime oltre il muro: ma quello è un corpo, è la carne immortale. Ho visto la fiamma sorgere nell’oscurità al suo soffio, la fiamma che si era spenta. L’ho vista. — Il volto dell’uomo era trasfigurato, e aveva una bellezza selvaggia nella lunga luce rosso-oro. — So che ha sconfitto la morte. Lo so. Ho dato la mia magia per saperlo. Ero un incantatore, una volta! E tu lo sai, e andrai là. Conducimi con te.

La stessa luce risplendeva sul volto di Sparviero, ma lo lasciava impassibile e duro. — Sto cercando di andarci — disse.

—  Lascia che venga con te!

Sparviero annuì, sobriamente. — Se sarai pronto quando salperemo — disse, con la stessa freddezza.

Il Tintore indietreggiò di un altro passo e si fermò a scrutarlo. L’esaltazione si rannuvolò lentamente, fino a essere sostituita da un’espressione strana, pesante: si sarebbe detto che il pensiero razionale cercasse di erompere attraverso la tempesta di parole e di sentimenti e di visioni che lo confondevano. Infine girò su se stesso senza pronunciare una parola e riprese a correre lungo la strada, nella nube di polvere che non era ancora ricaduta. Arren tirò un lungo respiro di sollievo.

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