— Non ne ho bisogno.
— Per mostrarti… Per mostrarti la via. Stanotte. Ti condurrò io. Te la mostrerò. Tu puoi arrivarci, perché tu… perché tu sei… — Cercò a tentoni la parola, finché Sparviero disse: — Io sono un mago.
— Sì! Quindi possiamo… possiamo giungervi. Alla via. Quando sogno. Nel sogno. Capisci? Ti condurrò io. Verrai con me, alla… alla via.
Sparviero stava immobile, pensieroso, al centro della stanza. — Forse — replicò infine. — Se verremo, saremo qui all’imbrunire. — Poi si girò verso Arren il quale si affrettò ad aprire la porta, impaziente di andarsene.
La strada umida e ombrosa sembrava luminosa come un giardino, dopo la stanza di Lepre. S’incamminarono verso la parte più alta della città, lungo la via più breve, una ripida scalinata di pietra fra muri grondanti di edera. Arren aspirava ed espirava come un leone marino. — Uff!… Hai intenzione di ritornarci?
— Sì, se non riuscirò a ottenere le stesse informazioni da una fonte meno pericolosa. Molto probabilmente, quello ci tenderà un’imboscata.
— Ma tu non sei protetto contro i predoni e così via?
— Protetto? Cosa intendi dire? Credi che io me ne vada in giro avviluppato in incantesimi come una vecchia timorosa dei reumatismi? Non ne ho il tempo. Nascondo la faccia per tener celata la nostra ricerca: ecco tutto. Possiamo difenderci a vicenda. Ma in verità, durante questo viaggio non potremo tenerci fuori dai pericoli.
— È naturale — disse Arren, irrigidendosi, irritato, offeso nel suo orgoglio. — Non è questo, che io cerco di fare.
— Tanto meglio — replicò il mago, inflessibile, e tuttavia con un certo buonumore che placò l’irritazione di Arren. In realtà, il ragazzo era stupito della propria collera: non aveva mai pensato di parlare in quel tono all’arcimago. Ma del resto, quello era l’arcimago e non lo era, quel Falco dal naso rincagnato e dalle guance squadrate e mal rasate, e dalla voce che talora era quella di uno e talvolta di un altro: un estraneo, di nessun affidamento.
— Ha un significato, quello che lui ti ha detto? — gli chiese, perché non era entusiasta della prospettiva di ritornare in quella stanza semibuia, affacciata sul fiume maleodorante. — Tutte quelle storie, essere vivo e essere morto, e ritornare anche con la testa tagliata?
— Non so se ha un significato. Volevo parlare con un mago che avesse perso il suo potere. Lui ha detto che non l’ha perso ma l’ha dato… in cambio di qualcosa. Di cosa? Vita per vita, ha detto. Potere per potere. No, non lo comprendo; tuttavia, vale la pena di ascoltarlo.
La ferma ragionevolezza di Sparviero acuì ancora di più la vergogna di Arren. Sentiva di essere petulante e nervoso come un bambino. Lepre l’aveva affascinato; ma adesso che l’incantesimo era rotto provava nausea e disgusto, come se avesse mangiato qualcosa di ripugnante. Decise di non parlare più, fino a quando avesse riacquistato l’autocontrollo. Un attimo dopo, mise un piede in fallo sugli scalini consunti e viscidi, scivoltò, e recuperò l’equilibrio graffiandosi le mani sulle pietre. — Oh, maledetta questa sudicia città! — proruppe, rabbiosamente. E il mago replicò, in tono asciutto: — Non è necessario maledirla, credo.
C’era davvero qualcosa di strano e fuori posto, nella città di Hort e nell’aria stessa; e si poteva credere veramente che fosse oppressa da una maledizione: eppure non si trattava di una presenza ma piuttosto di un’assenza, di un indebolimento di tutte le qualità, come un morbo che contagiasse ben presto lo spirito di ogni visitatore. Perfino il calore del sole pomeridiano era malsano: un caldo troppo pesante per il mese di marzo. Le piazze e le strade brulicavano di attività e di movimento, ma non c’erano né ordine né prosperità. Le merci erano scadenti, i prezzi alti, e i mercati erano malsicuri per i venditori e gli acquirenti, pieni di ladri e di bande vaganti. Non c’erano molte donne per le vie, e quelle poche uscivano quasi sempre in gruppi. Era una città senza legge, senza governo. Parlando con la gente, Arren e Sparviero scoprirono infatti che a Città Hort non c’era più un consiglio, un sindaco o un signore. Alcuni di coloro che un tempo governavano la città erano morti, e altri si erano dimessi, e altri ancora erano stati assassinati; vari capi signoreggiavano sui diversi quartieri, le guardie dominavano il porto e s’impinguavano le tasche, e via discorrendo.
La città non aveva più un centro. La gente, nonostante la sua attività irrequieta, sembrava priva di scopo. Gli artigiani, a quanto pareva, non avevano voglia di lavorare bene; perfino i ladri rubavano soltanto perché era l’unica cosa che sapevano fare. C’era tutta la chiassosa vivacità di una grande città portuale, in superficie, ma intorno stavano seduti immobili i mangiatori di hazia. E sotto la superficie, le cose non sembravano interamente reali: neppure i volti, i suoni, gli odori. Sbiadivano, di tanto in tanto, in quel lungo pomeriggio caldo, mentre Sparviero e Arren camminavano per le vie e parlavano con questo e con quello. Si dissolvevano rapidamente. I tendoni a strisce, i ciottoli sporchi, i muri colorati e tutta la vividezza dell’esistenza sparivano, lasciando la città mutata in una città di sogno, svuotata e squallida nella luce nebbiosa del sole.
Solo nella parte più alta, dove si recarono a riposare un poco nel tardo pomeriggio, quella malsana atmosfera di fantasticheria s’interruppe per qualche tempo. «Non è una città fortunata», aveva detto Sparviero qualche ora prima; e adesso, dopo ore di vagabondaggi senza meta e inutili conversazioni con numerosi sconosciuti, appariva stanco e tetro. Il camuffamento si andava attenuando un poco: una certa durezza si lasciava scorgere attraverso il volto burbero del mercante. Arren non era riuscito a liberarsi dall’irritazione di quel mattino. Si sedettero sull’erba ruvida, in cima alla collina, sotto le fronde di un boschetto di alberi di pendick, con le foglie scure e tempestate di boccioli rossi, alcuni già aperti. Da lassù non vedevano nulla della città, tranne i tetti di tegole che digradavano verso il mare. La baia spalancava le braccia, azzurra come l’ardesia sotto la foschia primaverile, e si protendeva fino all’orizzonte. Non c’erano linee nette di demarcazione. Rimasero a guardare quell’immenso spazio azzurro. La mente di Arren si schiarì, si schiuse per accogliere e celebrare il mondo.
Quando andarono a bere a un ruscelletto vicino che scorreva limpido sulle pietre brune, sgorgando dalla sorgente nascosta in qualche giardino principesco sulla collina alle loro spalle, bevve profondamente e immerse la testa nell’acqua fredda. Poi si alzò e declamò due versi delle Gesta di Morred:
Sono lodate le Fontane di Shelieth, l’arpa argentina delle acque,
Ma benedetto per sempre nel mio nome questo ruscello che ha placato la mia sete!
Sparviero rise, ascoltandolo, e anche Arren rise. Scrollò la testa come un cane, e gli spruzzi finissimi volarono nell’ultima aurea luce del sole.
Dovettero lasciare il boschetto e ridiscendere nelle strade; e quando ebbero cenato in un chiosco che vendeva untuose focacce di pesce, la notte scese pesante nell’aria. L’oscurità calò rapida nelle strette vie. — Sarà bene che andiamo, ragazzo — disse Sparviero, e Arren chiese: — Alla barca? — Ma sapeva che non sarebbero andati alla barca bensì alla casa sul fiume, alla stanza vuota e polverosa e terribile.
Lepre li stava aspettando sul portone.
Accese una lampada a olio per illuminare la buia scala. La minuscola fiamma tremolava senza sosta mentre lui la reggeva, e gettava sui muri ombre enormi e fuggevoli.
Lepre si era procurato un altro sacco di paglia per far sedere gli ospiti, ma Arren andò a sistemarsi sul pavimento nudo, accanto alla porta. L’uscio si apriva verso l’interno, e per sorvegliarlo avrebbe dovuto sedersi all’esterno; ma quel corridoio nero come la pece gli era insopportabile, e voleva tener d’occhio Lepre. L’attenzione di Sparviero, e forse anche i suoi poteri, si sarebbero concentrati su ciò che Lepre gli avrebbe detto o mostrato: toccava a lui, Arren, stare in guardia contro un eventuale tradimento.