Chiese, improvvisamente: — Resterai con me, là?
Non lo guardò. Ged era camuffato dall’illusione, un campagnolo di Kargad con la pelle bianca, e non le piaceva vederlo così. Ma la voce era immutata, la stessa voce che aveva parlato nella tenebra del labirinto.
Lui indugiò, prima di rispondere. — Tenar, io vado dove vengo mandato. Seguo la mia vocazione. Non mi ha ancora permesso di rimanere a lungo in una terra. Comprendi? Io faccio ciò che devo fare. Dovunque vada, devo andare solo. Finché avrai bisogno di me, starò con te in Havnor. E se avrai ancora bisogno di me, chiamami. Io verrò. Verrei anche dalla tomba, se tu mi chiamassi! Ma non posso restare con te.
Lei non disse nulla. Dopo un po’, lui aggiunse: — Là non avrai bisogno di me per molto tempo. Sarai felice.
Tenar annuì, accettando in silenzio quelle parole.
Proseguirono, a fianco a fianco, verso il mare.
IN VIAGGIO
Ged aveva nascosto la barca in una grotta, sul fianco di un grande promontorio roccioso chiamato Capo delle Nubi dagli abitanti del vicino paese, uno dei quali offrì loro, per cena, una ciotola di pesce stufato. Scesero le scogliere fino alla spiaggia, nell’ultima luce di quella giornata grigia. La grotta era una stretta crepa che affondava nella roccia per una decina di braccia; il fondo sabbioso era bagnato, poiché stava appena al di sopra del livello massimo della marea. L’apertura si scorgeva dal mare, e Ged disse che non dovevano accendere il fuoco perché i pescatori usciti di notte con le loro barchette non lo vedessero e non si incuriosissero. Perciò si stesero sulla sabbia, che sembrava tanto morbida tra le dita ma che per il corpo stanco era dura come la pietra. E Tenar ascoltò il mare a poche braccia sotto l’imboccatura della grotta, il mare che scrosciava e risucchiava e tuonava sulle rocce, e il rombo che si stendeva per miglia e miglia sulla spiaggia, verso oriente. Ripeteva sempre gli stessi suoni, eppure non erano mai identici. Non riposava mai. Su tutte le spiagge di tutte le terre del mondo si innalzava in onde irrequiete e non trovava mai pace, non era mai immobile. Il deserto, le montagne: quelli stavano immoti. Non gridavano perpetuamente con una grande voce cupa. Il mare parlava eternamente, ma il suo linguaggio le era estraneo: lei non capiva.
Nella prima luce grigia, alla bassa marea, Tenar si destò dal suo sonno inquieto e vide il mago uscire dalla grotta. Lo vide camminare, scalzo, il mantello stretto dalla cintura, sulle rocce crestate di nero, alla ricerca di qualcosa. Poi tornò, oscurando la grotta nell’entrare. — Ecco — disse, porgendole una manciata di cose umide e orrende, simili a pietre purpuree dalle labbra arancione.
— Che cosa sono?
— Mitili, strappati dalle rocce. E queste due sono ostriche, ancora più squisite. — Col pugnaletto che lei aveva portato appeso al mazzo di chiavi e che gli aveva prestato fra le montagne, Ged aprì un guscio e divorò il mitilo arancione, nella sua salsa di acqua marina.
— Non lo cucini neppure? L’hai mangiato vivo!
Tenar non lo guardò mentre Ged, un po’ vergognoso ma imperturbabile, continuava ad aprire e a divorare i molluschi uno dopo l’altro.
Quando ebbe terminato, ritornò nella grotta e si accostò alla barca, che stava con la prua in avanti, sollevata su alcuni tronchi che la tenevano staccata dalla sabbia. Tenar aveva guardato quella barca, la notte precedente, con diffidenza, e senza capire. Era molto più grande di quanto lei avesse immaginato che fossero le barche, tre volte più lunga di lei. Era piena di oggetti di cui non conosceva l’uso, e aveva l’aria pericolosa. Ai lati del naso (era così che Tenar chiamava la prua) era dipinto un occhio; e mentre stava per addormentarsi aveva avuto l’impressione costante che la barca la fissasse.
Ged frugò per un momento e ritornò portando qualcosa: un pacchetto di pane duro, accuratamente avvolto per tenerlo all’asciutto. Gliene offrì un grosso pezzo.
— Non ho fame.
Ged scrutò il volto incupito di lei.
Ripose il pane, avvolgendolo di nuovo, e poi si sedette all’imboccatura della grotta. — Tra due ore circa tornerà l’alta marea — disse. — Allora potremo partire. Hai trascorso una notte inquieta: perché non dormi un po’, adesso?
— Non ho sonno.
Lui non replicò. Rimase seduto nello scuro arco della roccia, di profilo rispetto a lei, a gambe incrociate: lo scintillante movimento del mare era dietro di lui, mentre Tenar lo guardava dall’interno della grotta. Ged non si muoveva. Era immoto come le rocce. E da lui s’irradiava il silenzio, come i cerchi che si dilatano da una pietra gettata nell’acqua. Il suo silenzio divenne non già l’assenza della parola ma una cosa in sé, come il silenzio del deserto.
Dopo molto tempo, Tenar si alzò e si accostò all’imboccatura della grotta. Lui non si mosse. Lei lo scrutò in volto. Sembrava fuso nel rame: rigido, con gli occhi scuri che non erano chiusi ma guardavano in basso, e la bocca serena.
Era lontano da lei, come il mare.
Dov’era adesso? Su quali vie dello spirito stava camminando? Lei non avrebbe mai potuto seguirlo.
Ged l’aveva indotta a seguirlo. L’aveva chiamata col suo nome, e lei era accorsa come il piccolo coniglio del deserto era andato a lui uscendo dall’oscurità. E adesso che lui aveva l’anello, adesso che le tombe erano in rovina e la sacerdotessa era perduta per sempre, adesso non aveva più bisogno di lei e se ne andava dove lei non poteva seguirlo. Non sarebbe rimasto con lei. L’aveva ingannata, e l’avrebbe abbandonata.
Si piegò, e con un gesto fulmineo gli sfilò dalla cintura il pugnaletto d’acciaio che gli aveva dato. Ged non si mosse, come una statua derubata.
La lama era lunga soltanto una spanna, e affilata da una parte: era la miniatura di un coltello sacrificale. Faceva parte del corredo della Sacerdotessa delle Tombe, che doveva portarlo insieme alle chiavi e alla cintura di crine di cavallo e ad altri oggetti, alcuni dei quali avevano funzioni sconosciute. Tenar non aveva mai usato il pugnale; solo, in una delle danze eseguite al novilunio, davanti al trono, lo lanciava in aria e l’afferrava al volo. Lei aveva amato quella danza: era scatenata, senza altra musica che il tambureggiare dei suoi piedi. Si era tagliata spesso le dita, quando si era esercitata, finché aveva imparato ad afferrare sempre l’impugnatura del coltello. La minuscola lama era abbastanza affilata per tagliare un dito fino all’osso, o per recidere le arterie di una gola. Lei avrebbe servito ancora i suoi Padroni, sebbene l’avessero tradita e dimenticata. Avrebbero guidato la sua mano nell’ultimo atto della tenebra. Avrebbero accettato il sacrificio.
Si voltò verso l’uomo, tenendo il coltello nella destra, dietro il fianco. In quel momento, Ged alzò lentamente la testa e la guardò. Aveva l’espressione di chi ritorna da molto lontano, di chi ha visto cose terribili. Il suo volto era calmo, ma pieno di sofferenza. Quando alzò lo sguardo e parve vederla sempre più chiaramente, la sua espressione si schiarì. Infine disse «Tenar», come in un saluto, e levò la mano a sfiorare la fascia d’argento traforato e scolpito che lei portava al polso. Lo fece come se volesse rassicurarsi, fiduciosamente. Non badò al pugnale nella mano di Tenar. Spostò lo sguardo sulle onde, che si sollevavano contro le rocce sottostanti, e disse con uno sforzo: — È ora… è ora di andare.
Al suono di quella voce, il furore abbandonò Tenar. Ebbe paura.
— Te li lascerai indietro. Adesso sei libera — disse Ged, alzandosi con improvviso vigore. Si stiracchiò, e si assestò il mantello. — Dammi una mano a spingere la barca. È montata sui tronchi, per farla rotolare. Ecco, spingi… ancora… Basta così. E adesso tienti pronta a balzare a bordo, quando ti dirò «salta». È un punto difficile per lanciarla… Ancora. Ecco! Salta! — E balzando dietro di lei, l’afferrò mentre Tenar perdeva l’equilibrio, la fece sedere sul fondo, si puntellò a gambe larghe, prese i remi e fece sfrecciare l’imbarcazione fuori, su un’onda di riflusso, sopra le rocce, oltre il promontorio ruggente e schiumante, verso il mare aperto.