Più oltre stava il cielo, che impallidiva nell’alba. Qualche stella bianca brillava lassù, alta e fredda.
Tenar vide le stelle e sentì il dolce vento sul volto; ma non si alzò. Rimase accovacciata, sulle mani e sulle ginocchia, tra la terra e il cielo.
L’uomo, una strana figura buia nella mezza luce che precedeva l’aurora, si voltò e le afferrò il braccio per farla alzare. Il suo volto era nero e contratto come quello di un demone. Tenar arretrò, scostandosi, urlando con una voce impastata che non era la sua, come se nella sua bocca si muovesse la lingua di una morta: — No! No! Non mi toccare… lasciami… Va’! — E, contorcendosi, indietreggiò nelle sgretolate fauci delle tombe.
L’energica stretta di Ged si allentò. Lui disse, con voce pacata: — Per il vincolo che porti, Tenar, ti ingiungo di venire.
Lei vide la luce delle stelle riflettersi sull’argento del cerchio che portava al braccio. Senza distoglierne gli occhi si alzò, barcollante. Mise la mano nella mano di lui, e lo seguì. Non poteva correre. Scesero a passo lento la collina. Dalla nera bocca, tra le rocce dietro di loro, uscì un lungo, lungo ululato ringhiante di odio lamentoso. Intorno a loro piovvero pietre. Il suolo tremò. Proseguirono, lei con gli occhi ancora fissi sul baluginio della luce delle stelle sopra il suo polso.
Erano nella valle a occidente del Luogo. Incominciarono a salire; e all’improvviso, Ged le disse di voltarsi. — Guarda…
Tenar si voltò, e vide. Erano dall’altra parte della valle, alla stessa altezza delle Pietre Tombali, i nove grandi monoliti che stavano eretti o giacevano distesi sopra la caverna dei diamanti e delle tombe. Le pietre erette si muovevano. Sussultavano e s’inclinavano lentamente, come alberi di navi. Una parve torcersi e ergersi più alta: poi fu scossa da un fremito, e cadde. Un’altra crollò trasversalmente sopra la prima, schiantandosi. E più oltre, la bassa cupola del palazzo del trono, nera contro la luce gialla dell’oriente, fremette. I muri si gonfiarono. L’intera massa gigantesca di pietra e di mattoni cambiò forma come argilla nell’acqua corrente, si afflosciò, e con un rombo e un’improvvisa tempesta di schegge e di polvere sdrucciolò lateralmente e crollò. La terra della valle s’increspò e sussultò: una specie di ondata salì il fianco della collina e un’enorme crepa si spalancò fra le Pietre Tombali, aprendosi sulla tenebra sottostante e vomitando polvere come fumo grigio. Le pietre che erano rimaste ancora erette vi precipitarono e vennero ingoiate. Poi, con uno scroscio che sembrò riecheggiare dal cielo, i neri labbri tormentati dello squarcio si chiusero; e le colline si squassarono ancora una volta e restarono immote.
Tenar spostò lo sguardo dall’orrore del terremoto all’uomo che le stava accanto, l’uomo di cui non aveva mai visto il volto alla luce del giorno. — Tu l’hai tenuto a bada — disse; e la sua voce, dopo l’immane mugghiare e urlare della terra, era pigolante come il vento in una canna. — Tu hai tenuto a bada il terremoto, l’ira della tenebra.
— Dobbiamo andare — replicò lui, voltando le spalle all’aurora e alle tombe diroccate. — Sono stanco, ho freddo… — Barcollava, mentre camminavano, e Tenar gli prese il braccio. Nessuno dei due poteva fare di più che procedere al passo, trascinandosi. Lentamente, come due minuscoli ragni su una grande parete, salirono a fatica l’immenso pendio della collina, finché, sulla cresta, si fermarono sul terreno arido, indorato dal sole che sorgeva e striato dalle lunghe ombre sparse della salvia. Davanti a loro stavano le montagne occidentali, con le basi purpuree, e le pendici più alte colorate d’oro. I due sostarono un momento e poi superarono la cresta della collina, fuori vista dal Luogo delle Tombe, e scomparvero.
LE MONTAGNE OCCIDENTALI
Tenar si destò, scuotendosi dagli atroci sogni, dai luoghi dove aveva camminato così a lungo che la carne si era staccata da lei cosicché poteva vedere le bianche ossa binate degli avambracci scintillare fiocamente nell’oscurità. Aprì gli occhi sull’aurea luce, e aspirò il pungente profumo della salvia. E quando si destò l’invase una dolcezza, un piacere che la saturava lentamente, interamente, fino a traboccare; e si sollevò a sedere, tendendo le braccia fuori dalle nere maniche della veste, e si guardò intorno, con una gioia incontaminata.
Era sera. Il sole era calato dietro le montagne che incombevano vicine e altissime a occidente, ma il chiarore che aveva lasciato riempiva tutta la terra e il cielo: un cielo invernale, immenso, limpido, una terra immensa, nuda e dorata, di montagne e di ampie valli. Il vento era caduto. Era freddo, e c’era un silenzio totale. Non si muoveva nulla. Le foglie dei vicini cespugli di salvia erano aride e grige, gli steli delle minuscole erbe secche del deserto le pungevano la mano. L’immensa gloria silente della luce ardeva su ogni ramoscello, su ogni foglia avvizzita e su ogni stelo, sulle colline, nell’aria.
Tenar guardò verso sinistra e vide l’uomo giacente sul suolo del deserto, avvolto nel mantello, con un braccio sotto la testa, addormentato profondamente. Nel sonno il suo volto era severo, quasi aggrondato, ma la mano sinistra stava abbandonata sulla terra, accanto a una piccola pianta di cardo che portava ancora la sua lacera cappa di lanugine grigia e la sua minuscola barriera di spine. L’uomo e il piccolo cardo del deserto; il cardo e l’uomo addormentato.
I suoi poteri erano grandi, e affini alle Vecchie Potenze della Terra; era uno che parlava con i draghi, e teneva a bada i terremoti con una parola. E adesso giaceva addormentato sulla terra, accanto a un piccolo cardo. Era stranissimo. Vivere, essere al mondo, era una cosa molto più grande e più strana di quanto lei avesse mai immaginato. Lo splendore del cielo sfiorò gli impolverati capelli di Ged, e per qualche istante trasformò il cardo in oro.
La luce sbiadiva lentamente. E il freddo parve diventare più intenso, di minuto in minuto. Tenar si alzò e cominciò a raccogliere la salvia secca, raccattando i fuscelli caduti, spezzando i duri rami che crescevano nodosi e massicci — fatte le proporzioni — come quelli delle querce. Si erano fermati lì verso il meriggio, quando era caldo, e non avevano potuto proseguire a causa della stanchezza. Un paio di ginepri stenti, e il pendio occidentale della cresta da cui erano appena discesi, offrivano un discreto riparo: avevano bevuto un po’ d’acqua dalla borraccia e si erano sdraiati a dormire.
C’erano parecchi rami più grossi, sparsi sotto gli alberi, e Tenar li raccolse. Scavò una buca in un angolo, tra i sassi affondati nella terra, e preparò il fuoco accendendolo poi con la selce e l’acciarino. Le foglie di salvia e i fuscelli s’infiammarono subito. I rami secchi fiorirono in vampe rosate, profumate di resina. Ormai si era fatto buio, intorno al fuoco, e le stelle si riaffacciavano nell’immane cielo.
Il crepitio delle fiamme destò il dormiente. Si sollevò a sedere, stropicciandosi il volto impolverato; poi si alzò, rigido, e si avvicinò al fuoco.
— Mi chiedo… — disse con voce assonnata.
— Lo so, ma non potremmo resistere di notte, qui, senza fuoco. Fa troppo freddo. — Dopo un attimo, Tenar aggiunse: — A meno che tu conosca qualche magia che ci dia calore o che nasconda le fiamme…
Lui si sedette accanto al fuoco, quasi toccandolo con i piedi, cingendosi le ginocchia con le braccia. — Brrr - fece. — Un fuoco è meglio della magia. Ho gettato una piccola illusione intorno a noi: se passasse qualcuno, gli sembreremmo fuscelli e pietre. Tu cosa dici? Che c’inseguiranno?
— Lo temo, eppure non credo che lo faranno. Nessuno, tranne Kossil, sapeva che tu eri là. Kossil e Manan. E sono morti entrambi. Sicuramente lei era nel palazzo, quando è crollato. Ci stava aspettando alla botola. E tutti gli altri penseranno che io fossi nel palazzo o nelle tombe, e che sia rimasta schiacciata durante il terremoto. — Anche lei si cinse le ginocchia con le braccia, e rabbrividì. — Spero che gli altri edifici non siano crollati. Era difficile vedere qualcosa dalla collina: c’era troppa polvere. Senza dubbio i templi e le case non sono caduti tutti quanti, per esempio la Casa Grande dove dormono le ragazze.