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—  Quando l’ho preso, tu mi hai detto che non avrei saputo cosa farne.

—  Era vero.

—  E tu lo sai?

Lui annuì.

—  Dimmi. Dimmi cos’è l’anello, e come hai trovato la metà perduta, e come sei venuto qui, e perché. Devo sapere tutto questo: forse allora capirò cosa devo fare.

—  Forse. Sta bene. Cos’è l’Anello di Erreth-Akbe? Ecco, puoi vedere che non sembra un oggetto prezioso e non è neppure un anello. È troppo grande. Forse è un bracciale, eppure sembra troppo piccolo per esserlo. Nessuno sa perché venne fabbricato. Una volta lo portò Elfarran la Bionda, prima che l’isola di Soléa sprofondasse nel mare; ed era già antico quando lei lo portava. Alla fine pervenne nelle mani di Erreth-Akbe. Il metallo è argento duro, trapassato da nove fori. All’esterno c’è un disegno graffito, come un motivo di onde, e all’interno ci sono nove simboli del Potere. La metà che hai tu ne porta quattro e un frammento di un quinto; e anche la mia metà. La frattura spezzò quel simbolo e lo distrusse. Da allora viene chiamato il Simbolo Perduto. Gli altri otto sono noti ai maghi: Pirr che protegge dalla follia e dal vento e dal fuoco, Ges che dona costanza, e così via. Ma il simbolo spezzato era quello che legava le terre. Era la Runa del Vincolo, il segno del dominio, il segno della pace. Nessun re poteva regnare bene se non governava sotto quel segno. Nessuno sa come sia scritto. Da quando è andato perduto, ad Havnor non ci sono più stati grandi re. Ci sono stati principi e tiranni, e guerre e conflitti tra tutte le isole di Earthsea.

«Perciò i saggi nobili e i maghi dell’arcipelago volevano l’Anello di Erreth-Akbe, per ricostruire il simbolo perduto. Ma alla fine rinunciarono a inviare i loro uomini a cercarlo, poiché nessuno poteva prendere una metà dalle Tombe di Atuan; e l’altra metà, che Erreth-Akbe aveva donato a un re di Kargad, era andata perduta da molto tempo. Dicevano che era inutile cercarla. Questo avveniva molti secoli fa.

«A questo punto, entro in scena io. Quando ero un poco più vecchio di quanto sia tu ora, ero impegnato in un… inseguimento, una specie di caccia attraverso il mare. Ciò che inseguivo mi sfuggì con l’inganno, e venni gettato su un’isola deserta, non lontano dalle coste di Karego-At e di Atuan, a sudovest di qui. Era un’isoletta, non molto più grande di una barena di sabbia, con lunghe dune erbose al centro e una fonte d’acqua salmastra, e null’altro.

«Eppure vi vivevano due persone. Un vecchio e una vecchia: fratello e sorella, credo. Avevano terrore di me. Non vedevano una faccia umana da… da quanto tempo? Anni, decine di anni. Ma io avevo bisogno di aiuto e furono buoni con me. Avevano una capanna costruita col legno gettato a riva dal mare, e un fuoco. La vecchia mi diede da mangiare i mitili che strappava dalle pietre alla bassa marea e la carne secca degli uccelli marini che loro uccidevano scagliando sassi. La vecchia aveva paura di me, ma mi diede da mangiare. Poi, quando vide che non facevo nulla di spaventoso, finì col fidarsi di me e mi mostrò il suo tesoro. Anche lei aveva un tesoro… Era un vestitino. Tutto di seta, ricamato di perle. Un vestito da bimba, l’abito di una principessina. E lei era vestita di pelli di foca non conciate.

«Non potevamo parlarci. Allora io non conoscevo la lingua di Kargad, e loro non conoscevano nessuna delle lingue dell’arcipelago e sapevano ben poco anche la loro. Dovevano essere stati portati lì da bambini, e abbandonati a morire. Non so perché, e credo che neppure loro lo sapessero. Non conoscevano altro che l’isola e il vento e il mare. Ma quando me ne andai, la vecchia mi fece un dono. Mi diede la metà perduta dell’Anello di Erreth-Akbe». Tacque per qualche istante.

—  Allora non sapevo cosa fosse, come non lo sapeva lei. Il più grande dono di quest’epoca del mondo, ed era stato dato da una povera vecchia sciocca vestita di pelli di foca a uno stupido che se lo cacciò in tasca, disse «Grazie!» e se ne andò… Ebbene, proseguii il mio viaggio e feci ciò che dovevo fare. E poi avvennero altre cose, e io andai alle isole dei Draghi, a occidente, e così via. Ma continuai a tenere l’oggetto, perché provavo gratitudine per la vecchia che mi aveva dato l’unico dono che aveva da dare. Infilai una catenina attraverso uno dei fori, e la portai senza pensarci più. E poi un giorno, a Selidor, l’Isola Estrema, la terra dove Erreth-Akbe morì combattendo con il drago Orm… a Selidor parlai con un drago, un discendente di Orm. E lui mi disse cosa portavo sul petto.

«Gli sembrava molto buffo che io non lo sapessi. I draghi ci giudicano divertenti. Ma ricordano Erreth-Akbe: parlano di lui come se fosse stato un drago, non un uomo.

«Quando ritornai alle Isole Interne, mi recai finalmente a Havnor. Sono nato su Gont, che si trova non molto lontano dalle vostre terre di Kargad, verso occidente, e avevo viaggiato molto, ma non ero mai stato a Havnor. Era tempo che mi recassi là. Vidi le bianche torri, e parlai con gli uomini importanti, i mercanti e i principi e i nobili di quegli antichi dominii. Dissi loro cos’avevo con me. Dissi che, se volevano, sarei andato a cercare l’altra metà dell’anello nelle Tombe di Atuan, per trovare la Prima Runa, la chiave della pace. Perché al mondo abbiamo un disperato bisogno di pace. Quelli mi fecero grandi lodi; e uno mi fornì perfino il denaro per approvvigionare la mia barca. Perciò imparai la vostra lingua e venni ad Atuan».

Il giovane tacque, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, nelle ombre.

—  Ma gli abitanti delle nostre città non ti hanno riconosciuto per occidentale dal colore della pelle e dal modo di parlare?

—  Oh, è facile ingannare la gente — disse lui, in tono quasi distratto. — Basta saper come fare. Si possono operare mutamenti illusori, e nessuno, eccettuato un altro mago, li riconoscerà per ciò che sono. E qui, nelle terre di Kargad, voi non avete né maghi né incantatori. È strano. Avete bandito tutti i vostri maghi tanto tempo fa, e avete vietato l’esercizio dell’arte magica; e ormai, quasi non ci credete più.

—  A me è stato insegnato a non crederci. È contrario agli insegnamenti dei re-sacerdoti. Ma io so che soltanto la magia poteva portarti alle tombe e aiutarti ad entrare dalla porta delle rocce rosse.

—  Non soltanto la magia, ma anche le informazioni utili. Noi ci serviamo della scrittura molto più di voi, credo. Tu sai leggere?

—  No. È una delle arti nere.

Lui annuì. — Ma è utile — disse. — Un antico ladro sfortunato lasciò certe descrizioni delle Tombe di Atuan, e le istruzioni per entrare, per chi fosse stato in grado di usare uno dei Grandi Incantesimi d’Apertura. Tutto questo era scritto in un libro conservato nel tesoro di un principe di Havnor. Lui mi permise di leggerlo. Perciò sono arrivato fino alla grande caverna…

—  La cripta.

—  Il ladro che descrisse il modo per entrare era convinto che il tesoro si trovasse nella cripta. Perciò avevo cercato lì, ma avevo la sensazione che dovesse essere nascosto meglio, più lontano, in quei meandri. Sapevo dov’era l’ingresso del labirinto, e quando ti ho vista sono andato là, pensando di nascondermi nel dedalo e di perlustrarlo. È stato un errore, naturalmente. I Senza Nome mi avevano già in pugno, e avevano confuso la mia mente. E da allora sono diventato sempre più debole e più stupido. Non ci si deve sottomettere a loro, si deve resistere, mantenere sempre forte e sicuro il proprio spirito. Questo l’ho imparato molto tempo fa. Ma è molto difficile riuscirci, qui, dove loro sono tanto potenti. Non sono dèi, Tenar. Ma sono più forti di qualunque uomo.

Rimasero a lungo in silenzio.

—  Cos’altro hai trovato nei cofani del tesoro? — chiese lei, con voce spenta.

—  Cianfrusaglie. Oro, gemme, corone, spade. Nulla che possa essere rivendicato da un uomo vivente… Dimmi una cosa, Tenar: come sei stata scelta per diventare Sacerdotessa delle Tombe?

—  Quando muore la Prima Sacerdotessa, vanno a cercare in tutto Atuan una bambina nata la notte in cui la sacerdotessa è morta. E la trovano sempre, perché è la sacerdotessa rinata. Quando la bambina compie cinque anni la conducono qui, al Luogo. E quando compie sei anni viene data ai Tenebrosi, che divorano la sua anima. Perciò appartiene a loro, come è sempre appartenuta a loro fin dall’inizio del tempo. E non ha nome.

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