L’uomo era lì, seminascosto. Lo spioncino si affacciava sull’estremità del vicolo cieco. Arha poteva vedere solo il dorso, il collo piegato, e il braccio destro. Era seduto accanto all’angolo delle pareti e scalpellava le pietre con il coltello, un corto pugnale d’acciaio dall’impugnatura ingemmata. La lama era spezzata. La punta giaceva esattamente sotto lo spioncino. L’uomo l’aveva rotta cercando di svellere le pietre, di raggiungere l’acqua che sentiva scorrere limpida e mormorante nel mortale silenzio del sotterraneo, dall’altra parte dell’impenetrabile muraglia.
I movimenti dell’uomo erano apatici. Dopo quelle tre notti e quei tre giorni era molto diverso dalla figura che aveva sostato agile e calma davanti alla porta di ferro e aveva riso della propria sconfitta. Era ancora ostinato, ma l’energia l’aveva abbandonato. Non possedeva un sortilegio per scostare le pietre, ma doveva servirsi di quell’inutile coltello. Perfino la luce incantata era fioca e fosca. Mentre Arha l’osservava, la luce guizzò abbassandosi: l’uomo alzò la testa con un sussulto e lasciò cadere il pugnale. Poi, caparbiamente, lo raccolse e cercò d’insinuare tra le pietre la lama spezzata.
Distesa tra le canne ghiacciate sulla riva del fiume, senza rendersi conto del luogo dove si trovava e di ciò che stava facendo, Arha accostò la bocca alla fredda bocca della roccia e la riparò con le mani perché il suono non si disperdesse. — Mago! — disse, e la sua voce, scivolando nella gola di pietra, sussurrò freddamente nella galleria sotterranea.
L’uomo trasalì e si rialzò in piedi, e così sparì dal cerchio della visibilità quando lei cercò di vederlo. Arha accostò di nuovo le labbra allo spioncino e disse: — Torna indietro lungo la muraglia dalla parte del fiume, fino alla seconda svolta. La prima svolta a destra, poi saltane una, e poi di nuovo a destra. Alle Sei Vie, di nuovo a destra. Poi a sinistra, a destra, a sinistra, a destra. Rimani lì, nella Camera Dipinta.
Spostandosi per guardare di nuovo doveva aver lasciato che un raggio della luce del giorno saettasse per un momento nella galleria attraverso lo spioncino, perché, quando guardò, l’uomo era rientrato nel cerchio della visuale e guardava in su, verso l’apertura. Il volto, che adesso sembrava segnato da cicatrici, era teso e ansioso. Le labbra erano aride e nere, gli occhi febbrili. Alzò il bastone, portando la luce sempre più vicina agli occhi di Arha. Impaurita, lei si ritrasse, chiuse lo spioncino col coperchio di roccia e con i ciottoli, si rialzò e si affrettò a ritornare al Luogo. Si accorse che le tremavano le mani, e talvolta la vertigine l’invadeva. Non sapeva cosa fare.
Se l’uomo seguiva le sue istruzioni, sarebbe ritornato verso la porta di ferro, nella camera degli affreschi. Là non c’era nulla: non aveva una ragione per andarci. C’era uno spioncino nel soffitto della Camera Dipinta, molto efficiente, nella tesoreria del tempio degli dèi gemelli: forse era per questo che le era venuta l’idea. Non lo sapeva. Perché gli aveva parlato?
Avrebbe potuto calargli un po’ d’acqua attraverso uno spioncino, e poi chiamarlo in quel luogo. Così sarebbe rimasto in vita più a lungo. Fino a quando fosse piaciuto a lei, per l’esattezza. Se gli calava acqua e un po’ di cibo di tanto in tanto, quello avrebbe continuato per giorni e mesi a vagare nel labirinto; e lei avrebbe potuto osservarlo attraverso gli spioncini, e dirgli dove avrebbe trovato l’acqua, e qualche volta dargli indicazioni false in modo che vi andasse invano: ma sarebbe stato sempre costretto ad andare dove lei gli comandava. E così avrebbe imparato a burlarsi dei Senza Nome, a ostentare la sua sciocca virilità nei sepolcreti dei Morti Immortali!
Ma finché l’uomo era là, lei non avrebbe più potuto entrare nel labirinto. Perché no?, si chiese. E si diede la risposta: Perché lui potrebbe fuggire dalla porta di ferro, che dovrei lasciare aperta dietro di me… Ma non potrebbe spingersi più lontano della cripta. La verità era che aveva paura di affrontarlo. Aveva paura del suo potere, delle arti che aveva usato per penetrare nella cripta, della magia che teneva accesa quella luce. Ma era poi tanto temibile? Le potenze che regnavano nei luoghi tenebrosi erano dalla parte di lei, non di quell’uomo. Era evidente che lui non poteva far molto, nel regno dei Senza Nome. Non aveva aperto la porta di ferro, non aveva fatto comparire viveri per magia, non aveva fatto passare l’acqua attraverso la parete, non aveva evocato un mostro demoniaco per abbattere le muraglie, come lei aveva temuto. In tre giorni di vagabondaggi non aveva neppure trovato la strada fino alla porta del Grande Tesoro, che sicuramente aveva cercato. Neppure Arha aveva seguito le istruzioni di Thar per entrare in quella camera, procrastinando quella spedizione per un certo timore, una riluttanza, la sensazione che non fosse ancora venuto il momento.
E adesso si chiese: perché l’uomo non avrebbe dovuto compiere quella spedizione per lei? Poteva guardare quanto voleva i tesori delle tombe. Tanto, non gli sarebbero serviti a niente. E lei avrebbe potuto beffarlo, e dirgli di mangiare l’oro e di bere i diamanti.
Con la fretta nervosa e febbrile che da tre giorni si era impadronita di lei, corse al tempio degli dèi gemelli, aprì la piccola cripta del tesoro, e scoprì lo spioncino accuratamente celato nel pavimento.
Là sotto c’era la Camera Dipinta, ma era immersa nell’oscurità. La via che l’uomo doveva percorrere nel labirinto era molto più lunga, forse di parecchie miglia; e lei l’aveva dimenticato. E senza dubbio, era indebolito e non camminava svelto. Forse avrebbe scordato le sue istruzioni e avrebbe sbagliato a svoltare. Pochissime persone riuscivano a ricordare le istruzioni dopo averle udite una sola volta, come ci riusciva lei. Forse non aveva neppure compreso la lingua che lei parlava. Se era così, allora vagasse pure fino a quando fosse crollato a morire nel buio, lo sciocco, lo straniero, il miscredente. E che il suo spettro gemesse per le strade di pietra delle Tombe di Atuan, fino a quando la tenebra avrebbe divorato anche quello…
La mattina seguente, molto presto, dopo una notte di scarso sonno e di sogni maligni, Arha ritornò allo spioncino nel piccolo tempio. Guardò, e non vide nulla: tenebra. Calò una candela accesa in una piccola lanterna di stagno appesa a una catena. L’uomo era lì, nella Camera Dipinta. Oltre il lume della candela, lei ne vide le gambe e una mano inerte. Parlò nello spioncino, che era grande quanto una piastrella del pavimento: — Mago!
Nessun movimento. Era morto? Era tutta lì, dunque, la sua forza? Arha fece una smorfia; il cuore le batté più forte. — Mago! — gridò, e la sua voce risuonò nella cavità della camera sottostante. L’uomo si mosse, e lentamente si sollevò a sedere, e si guardò intorno frastornato. Dopo un poco alzò la testa, sbattendo le palpebre nel vedere la minuscola lanterna che dondolava dal soffitto. La sua faccia era uno spettacolo terribile, gonfia e scura come un volto di mummia.
Tese la mano verso il bastone che giaceva sul pavimento accanto a lui, ma sul legno non fiorì la luce. Non gli restava più nessun potere.
— Mago, vuoi vedere il tesoro delle Tombe di Atuan?
Lui guardava, stancamente, socchiudendo le palpebre nella luce della lanterna: non poteva scorgere altro. Dopo un po’, con una smorfia che forse era cominciata come sorriso, annuì, una volta sola.
— Esci da questa stanza e va’ a sinistra. Prendi il primo corridoio a sinistra… — Arha elencò la lunga serie di istruzioni, senza pause, e alla fine aggiunse: — Là troverai il tesoro che sei venuto a cercare. E forse troverai l’acqua. Quale preferiresti, ora?
L’uomo si alzò in piedi, appoggiandosi al bastone. Guardando in alto con occhi che non potevano vederla si sforzò di dire qualcosa, ma non c’era voce nella sua gola arida. Scrollò leggermente le spalle e lasciò la Camera Dipinta.
Lei non gli avrebbe dato l’acqua. E l’uomo, del resto, non avrebbe mai trovato la strada della stanza del tesoro. Le istruzioni erano troppo lunghe perché potesse ricordarle tutte; e c’era l’Abisso, se mai fosse giunto tanto lontano. Adesso era al buio. Avrebbe perso la strada, e avrebbe finito col cadere e morire chissà dove, nelle gallerie strette e aride. E Manan l’avrebbe trovato e l’avrebbe trascinato fuori. E quella sarebbe stata la fine. Arha strinse con le dita l’orlo dello spioncino e si dondolò avanti e indietro, avanti e indietro, mordendosi le labbra come per reggere una sofferenza insopportabile. Non gli avrebbe dato l’acqua. Non gli avrebbe dato l’acqua. Gli avrebbe dato la morte, la morte, la morte, la morte, la morte.