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Ged rifletté a lungo su queste parole, che penetrarono profondamente nel suo intelletto. Eppure la maestà del compito non bastò a rendere meno duro e arido il lavoro di quel lungo anno nella torre; e al termine di quell’anno Kurremkarmerruk gli disse: — Hai compiuto un buon inizio. — E null’altro. I maghi dicono la verità, ed era vero che tutta la padronanza dei nomi che Ged si era sforzato di acquisire quell’anno era solo l’inizio di ciò che doveva continuare ad apprendere per tutta la vita. Fu autorizzato a lasciare la Torre Isolata prima degli altri che erano arrivati con lui, perché aveva imparato più in fretta: ma quella fu l’unica lode che ottenne.

S’incamminò verso sud, attraverso l’isola, solo, all’inizio dell’inverno, lungo le strade deserte e senza città. Al cader della notte venne la pioggia. Non recitò un incantesimo per tenere la pioggia lontana da lui, perché il clima di Roke era nelle mani del maestro del vento e non poteva essere modificato. Si rifugiò sotto un grande albero di pendick; e quando si sdraiò, avvolgendosi nel mantello, pensò al suo vecchio maestro Ogion, che forse era ancora impegnato nei vagabondaggi autunnali sulle alture di Gont, a dormire con i rami spogli per tetto e la pioggia per muri. Quel pensiero lo fece sorridere, perché il ricordo di Ogion gli era sempre di conforto. Si addormentò col cuore sereno, lì nell’oscurità fredda e piena del sussurro dell’acqua. All’alba, destatosi, alzò la testa. La pioggia era cessata; vide, riparato tra le pieghe del suo mantello, un animaletto raggomitolato e addormentato che si era insinuato lì per trovare un po’ di tepore. Si meravigliò nel vederlo, perché era una bestiola strana: un otak.

Si trovano soltanto su quattro isole meridionali dell’arcipelago: Roke, Ensmer, Pody e Wathort. Sono piccoli e lucidi, col musetto largo e la pelliccia bruno-scura o screziata e grandi occhi brillanti. Hanno denti aguzzi e un carattere irritabile, e quindi nessuno cerca di addomesticarli. Non hanno voce. Ged accarezzò l’otak, e quello si svegliò e sbadigliò mostrando la linguetta bruna e i denti bianchi, ma non si spaventò. — Otak — disse Ged; e poi, ricordando i mille nomi d’animali che aveva imparato alla torre, lo chiamò col suo nome vero nella Vecchia Favella. — Hoeg! Vuoi venire con me?

L’otak andò a sedersi sulla sua mano aperta, e cominciò a forbirsi la pelliccia.

Lui se lo mise sulla spalla, nelle pieghe del cappuccio, e la bestiola ci restò. Qualche volta, durante il giorno, balzava giù e sfrecciava nel bosco, ma poi tornava sempre da lui; una volta portò un topo della foresta che aveva catturato. Ged rise e le disse di mangiarselo, perché lui digiunava dato che quella notte era la festa del solstizio. Arrivò così, nel crepuscolo umido, oltre la collina di Roke, e vide fulgide luci incantate brillare nella pioggia sopra i tetti della Grande Casa, ed entrò e venne accolto dai maestri e dai compagni nella sala rischiarata dal fuoco.

Fu come tornare a casa, per Ged che non aveva una casa cui ritornare. Fu felice di vedere tante facce che conosceva, soprattutto di vedere Veccia che gli veniva incontro con un gran sorriso sulla faccia scura. In quell’anno aveva sentito la mancanza dell’amico più di quanto avesse previsto. Veccia era stato proclamato incantatore quell’autunno e non era più apprendista, ma questo non costituiva una barriera tra loro. Si misero a parlare, e Ged ebbe l’impressione di aver detto a Veccia in quella prima ora più cose di quante ne avesse dette durante tutto il lungo anno trascorso alla Torre Isolata.

L’otak era ancora sulla sua spalla, annidato nella falda del cappuccio, quando si sedettero a cena intorno alle lunghe tavole sistemate nella sala del Camino in occasione della festa. Veccia si meravigliò nel vedere la bestiola e subito tese la mano per accarezzarla, ma l’otak cercò di morderlo. Veccia rise. — Dicono, Sparviero, che l’uomo preferito da un animale selvatico è un uomo cui i Vecchi Poteri della pietra e delle fonti parleranno con voce umana.

—  Dicono che i maghi di Gont tengano spesso un familiare — aggiunse Diaspro, che era seduto accanto a Veccia, dall’altra parte. — Il nostro signore Nemmerle ha il corvo, e i canti dicono che il mago rosso di Ark si portava dietro un cinghiale selvatico con una catena d’oro. Ma non ho mai sentito parlare di un incantatore che tenesse un ratto nel cappuccio!

Tutti risero, e Ged rise con loro. Era una notte di festa e lui era lieto di essere lì, al caldo e tra l’allegria, a festeggiare insieme ai suoi compagni. Ma, come tutto ciò che Diaspro gli diceva, quella battuta lo esasperò.

Quella sera era ospite della scuola il signore di O, che era lui stesso un incantatore famoso. Era stato discepolo dell’arcimago, e qualche volta ritornava a Roke per la festa d’inverno o per la lunga danza, in estate. C’era con lui la sua consorte, snella e giovane, fulgida come il rame nuovo, con la chioma nera incoronata di opali. Accadeva raramente che una donna venisse invitata nelle sale della Grande Casa, e alcuni dei vecchi maestri la sbirciavano di traverso con aria di disapprovazione. Ma i giovani la guardavano con tanto d’occhi.

—  Per una donna così — disse Veccia a Ged, — potrei operare incantesimi grandiosi… — Sospirò, poi rise.

—  È solo una donna — replicò Ged.

—  La principessa Elfarran era solo una donna — disse Veccia. — Eppure per lei venne devastata tutta Enlad, e l’eroe-mago di Havnor morì, e l’isola di Solèa sprofondò nel mare.

—  Vecchie leggende — osservò Ged. Ma poi cominciò a guardare anche lui la signora di O, chiedendosi se fosse veramente una bellezza mortale come quelle di cui parlavano le leggende.

Il maestro cantore aveva cantato le Gesta del giovane re, e tutti insieme avevano cantato la Carola dell’inverno. Quando ci fu una breve pausa, prima che tutti si levassero da tavola, Diaspro si alzò e si avvicinò al tavolo più accostato al camino, dove sedevano l’arcimago e gli ospiti e i maestri, e si rivolse alla signora di O. Diaspro non era più un ragazzo ma un giovane, alto e bello, col mantello stretto alla gola da una fibbia d’argento: anche lui era stato proclamato incantatore, quell’anno, e la fibbia d’argento ne era l’emblema. La dama sorrideva a ciò che lui diceva, e gli opali splendevano radiosi tra i suoi capelli neri. Poi, col benevolo consenso dei maestri, Diaspro operò per lei un incantesimo d’illusione. Fece scaturire dal pavimento di pietra un albero bianco. I suoi rami toccavano le travi del tetto, e su ogni ramoscello di ogni ramo brillava una mela d’oro, perché era l’Albero dell’Anno. All’improvviso, tra i rami svolazzò un uccello, tutto bianco con una coda che sembrava una cascata di neve, e le mele dorate si trasformarono in semi: ognuno era una goccia di cristallo. Caddero dall’albero con un fruscio di pioggia, e nell’aria aleggiò una dolce fragranza, mentre l’albero, ondeggiando, emetteva foglie di fuoco rosato e fiori bianchi che sembravano stelle. Poi l’illusione svanì. La signora di O lanciò un’esclamazione di piacere, e chinò la testa splendente verso il giovane incantatore per lodare la sua maestria. — Vieni con noi, vieni a vivere con noi a Otokne… Vero che può venire, mio signore? — chiese con slancio infantile all’austero consorte. Ma Diaspro disse soltanto: — Quando avrò acquisito un’abilità degna dei miei maestri qui presenti e delle tue lodi, mia signora, sarò lieto di venire, e ti servirò sempre con gioia.

Così fece piacere a tutti i presenti, eccettuato Ged. Ged si unì agli elogi con la voce, ma non col cuore. — Io avrei saputo fare meglio — si disse, con rabbiosa invidia; e da quel momento tutta la gioia della serata divenne amarezza.

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