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—  Bene — osservò Ogion. — Ora lo sai. Meglio ora che mai. Ma alla fine sarai tu il mio maestro. — Si alzò e attizzò il fuoco e vi appese la pentola a bollire; e poi, indossando la giubba di pelle di pecora, disse: — Devo andare a governare le capre. Bada tu, alla pentola.

Quando rientrò, tutto impolverato di neve, battendo gli stivali di pelle di capra, portava un lungo e rozzo bastone di legno di tasso. Per quanto restava del breve pomeriggio, e poi ancora dopo cena, alla luce della lampada lavorò di coltello e di pietra per levigare e d’incantesimi. Molte volte passò le mani sul legno, come per cercare qualche difetto. Spesso, mentre lavorava, cantilenava sottovoce. Ged, ancora stanchissimo, ascoltava e mentre si assopiva gli parve di essere bambino, nella capanna della strega, al villaggio di Dieci Ontani, in una notte nevosa, nell’oscurità rischiarata dal fuoco, nell’aria appesantita dagli aromi delle erbe e dal fumo, con la mente che andava alla deriva nei sogni mentre lui ascoltava il lungo canto sommesso degli incantesimi e delle gesta degli eroi che combattevano contro le potenze delle tenebre e vincevano o perdevano su isole lontane, tanto tempo addietro.

—  Ecco — disse Ogion, e gli porse il bastone. — L’arcimago ti aveva dato legno di tasso: aveva scelto bene, e io ho fatto come lui. Volevo usare il bastone per farne un arco, ma così è meglio. Buonanotte, figlio mio.

E mentre Ged, che non trovava parole per ringraziarlo, si ritirava nella propria alcova, Ogion lo seguì con lo sguardo e disse, a voce troppo bassa perché lui potesse udirlo: — O mio giovane falco, vola bene!

Nell’alba fredda, quando Ogion si svegliò, Ged non c’era più. Aveva lasciato soltanto, alla maniera dei maghi, un messaggio scritto in rune argentee sulla pietra del focolare, che svanirono appena Ogion le lesse: — Maestro, vado a caccia.

A CACCIA

Ged s’incamminò per la via che scendeva da Re Albi nell’oscurità invernale prima del levar del sole, e prima di mezzogiorno giunse al porto di Gont. Ogion gli aveva donato gambali gontiani, e una camicia e un giustacuore di cuoio e di lino per sostituire le lussuose vesti osskiliane, ma per il viaggio invernale Ged aveva tenuto il principesco mantello foderato di pellawi. Così ammantato, a mani vuote, portando solo il bastone scuro alto quanto lui, giunse alla porta dell’entroterra, e i soldati che oziavano appoggiati ai draghi scolpiti non dovettero guardarlo due volte per riconoscere in lui un mago. Ritrassero le lance e lo lasciarono passare senza fargli domande, e lo seguirono con lo sguardo mentre si allontanava per la via.

Sui moli e nella casa della corporazione del mare Ged chiese se c’erano navi dirette al nord o all’est, verso Enlad, Andrad, Oranéa. Tutti gli risposero che nessuna nave avrebbe lasciato il porto di Gont nell’imminenza del solstizio d’inverno, e alla corporazione del mare gli dissero che con quel tempo infido neppure i pescherecci sarebbero usciti oltre gli scogli Corazzati.

Gli offrirono la cena nella dispensa della corporazione del mare: è raro che un mago debba chiedere un pasto. Per un po’ restò in compagnia di scaricatori, maestri d’ascia e maghi della pioggia, ascoltando con piacere le loro laconiche conversazioni e il loro borbottante linguaggio gontiano. Provava un gran desiderio di rimanere a Gont, di rinunciare alla magia e all’avventura, dimenticare tutto il potere e l’orrore, vivere in pace come chiunque altro sull’amato e conosciuto suolo della sua patria. Questo era il suo desiderio, ma la sua volontà era un’altra. Non rimase a lungo nella corporazione del mare, né in città, quando seppe che nessuna nave avrebbe lasciato il porto. Si avviò lungo la riva della baia fino a quando giunse al primo dei piccoli villaggi che stanno a nord della città di Gont, e là s’informò presso i pescatori finché ne trovò uno che aveva una barca da vendere.

Il pescatore era un vecchio austero. La sua barca, lunga dodici piedi e col fasciame a tavole sovrapposte, era così malconcia che a malapena era in grado di tenere il mare, ma l’uomo chiedeva un prezzo elevato: l’incantesimo della sicurezza in mare per un anno a favore dell’altra sua barca, e per sé e per suo figlio. Infatti i pescatori di Gont non temono nulla, neppure la magia, ma solo il mare.

L’incantesimo di sicurezza, che viene considerato tanto prezioso nell’arcipelago Settentrionale, non ha mai salvato un uomo dal vento di tempesta o dalle ondate della bufera; ma, gettato da chi conosce i mari locali e il comportamento di una barca e l’abilità del marinaio, intesse una certa sicurezza intorno al pescatore. Ged fece l’incantesimo bene e onestamente, lavorando tutta quella notte e il giorno successivo, senza omettere nulla, sicuro e paziente, anche se la sua mente era sempre assillata dalla paura e i suoi pensieri percorrevano sentieri tenebrosi cercando d’immaginare come gli sarebbe apparsa la prossima volta l’ombra, e quando, e dove. Quando l’incantesimo fu compiuto e gettato, si sentì stanchissimo. Quella notte dormì nella capanna del pescatore, su un’amaca di budello di balena, e si svegliò all’alba, puzzolente come un’aringa affumicata, e scese alla cala sotto lo scoglio Nord, dove stava la sua nuova barca.

La spinse nelle acque tranquille accanto all’imbarcadero, e subito l’acqua cominciò a filtrare dal fondo. Salito a bordo leggero come un gatto, Ged assestò il fasciame deformato e i cavicchi marci, operando con gli utensili e gli incantesimi, come faceva un tempo con Pechvarry a Torning Bassa. Gli abitanti del villaggio si radunarono in silenzio, senza avvicinarsi troppo, a guardare le sue mani svelte e ad ascoltare la sua voce sommessa. Ged eseguì bene e con pazienza anche questo lavoro, e la barca divenne stagna e solida. Poi issò come albero il bastone che Ogion gli aveva fatto, lo fissò con incantesimi, e vi legò un pennone di legno solido. Al pennone intessé, sul telaio del vento, una vela d’incantesimi, una vela quadrata bianca come le nevi del picco di Gont. A quella vista le donne che l’osservavano sospirarono d’invidia. Poi, ritto accanto all’albero, Ged fece alzare un leggero vento magico. La barca avanzò sull’acqua, puntando verso gli scogli Corazzati attraverso la grande baia. Quando i pescatori, che osservavano muti, videro quella barca a remi così difettosa sfrecciare via rapida come un piro-piro che prende il volo, lanciarono un’acclamazione, sorridendo e battendo i piedi nel vento freddo; e Ged, voltandosi indietro per un momento, li vide continuare ad applaudirlo, sotto la scura mole tormentata dello scoglio Nord, al di sopra del quale i campi di neve della montagna s’innalzavano fino alle nubi.

Veleggiò attraverso la baia e passò tra gli scogli Corazzati, nel mare di Gont, e regolò la rotta verso nordovest per transitare a nord di Oranéa ritornando com’era venuto. Non aveva un piano o una strategia: voleva solo ripercorrere la sua rotta. Seguendo il suo volo di falco attraverso i giorni e i venti da Osskil a Gont, l’ombra poteva vagare o poteva avanzare in linea retta: era impossibile dirlo. Ma se non si era ritirata del tutto nel regno dei sogni, non avrebbe potuto lasciarsi sfuggire Ged che veniva ad incontrarla apertamente sul mare.

E se lui doveva incontrarla, voleva incontrarla sul mare. Non sapeva bene perché fosse così, eppure aveva terrore d’incontrarla di nuovo sulla terraferma. Dal mare salgono tempeste e mostri, ma non potenze maligne: il male appartiene alla terra. Non ci sono mari né fiumi né fonti, nella terra tenebrosa dove Gel era andato una volta. La morte è il luogo arido. Sebbene il mare fosse un pericolo per lui, in quella brutta stagione, quel pericolo e quell’instabilità mutevole gli sembravano una difesa. E quando avesse incontrato l’ombra alla conclusione della sua follia, pensava, forse almeno avrebbe potuto afferrarla mentre quella afferrava lui, e trascinarla col peso del proprio corpo e col peso della propria morte, giù, nella tenebra del mare profondo, da dove non avrebbe più potuto risorgere. E così, almeno, la sua morte avrebbe posto fine al male che lui aveva scatenato da vivo.

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