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Il maestro abbassò di nuovo lo sguardo sul sasso. — E anche una pietra è una cosa buona, sai — disse, parlando in tono meno grave. — Se le isole di Earthsea fossero tutte fatte di diamante, la nostra vita sarebbe dura. Goditi le illusioni, ragazzo, e lascia pietre le pietre. — Sorrise, ma Ged se ne andò insoddisfatto. Quando si insisteva con un mago perché rivelasse i suoi segreti, quello parlava sempre, come Ogion, di equilibrio e di pericoli e di tenebra. Ma senza dubbio un mago che avesse trasceso quei trucchi puerili dell’illusione, e fosse giunto alle vere arti dell’evocazione e della metamorfosi, era abbastanza potente per fare ciò che gli piaceva ed equilibrare il mondo come gli sembrava più giusto e scacciare la tenebra con la propria luce.

Nel corridoio incontrò Diaspro, che, da quando i risultati di Ged avevano incominciato a suscitare elogi in tutta la scuola, gli parlava in un tono che appariva più amichevole ma era più beffardo. — Mi sembri di malumore, Sparviero — disse. — I tuoi incantesimi da giocoliere vanno male?

Cercando come sempre di mettersi su un piano di parità con Diaspro, Ged rispose alla domanda fingendo di non avvertirne il tono ironico. — Sono stanco di fare il giocoliere — disse, — stanco di questi trucchi illusori, utili solo per divertire oziosi signori nei loro castelli o domimi. L’unica vera magia che finora mi hanno insegnato a Roke è di creare la luce incantata e modificare un po’ le condizioni metereologiche. Il resto è soltanto un trucco.

—  Anche i trucchi sono pericolosi — disse Diaspro, — nelle mani di uno sciocco.

A queste parole Ged si voltò come se fosse stato schiaffeggiato, e avanzò di un passo verso Diaspro; ma l’altro sorrise come se non avesse avuto nessuna intenzione di offenderlo, chinò la testa in quel suo modo rigido ed elegante, e proseguì.

Mentre se ne stava lì con la rabbia nel cuore, seguendo Diaspro con lo sguardo, Ged giurò a se stesso di superare il rivale, e non in qualche semplice gara d’illusione ma in una dimostrazione di potere. Si sarebbe imposto, e avrebbe umiliato Diaspro. Non poteva permettere che quell’individuo continuasse a guardarlo dall’alto in basso, elegante, sdegnoso, pieno di odio.

Non stette a chiedersi per quale motivo Diaspro l’odiasse. Sapeva soltanto per quale motivo lui odiava Diaspro. Gli altri apprendisti avevano capito presto di non potersi opporre a Ged, per scherzo o seriamente, e dicevano di lui, alcuni in tono di lode e altri di disprezzo: — È un mago nato, non si lascerà mai battere. — Solo Diaspro non lo lodava e non lo evitava, ma lo guardava semplicemente dall’alto in basso, con un lieve sorriso. E perciò Diaspro era il suo unico rivale, ed era necessario svergognarlo.

Non comprendeva, o non voleva comprendere, che in quella rivalità cui si aggrappava, alimentandola come parte del suo orgoglio, c’era qualcosa del pericolo, della tenebra contro cui l’aveva messo gentilmente in guardia il maestro delle mani.

Quando non era animato dalla rabbia, sapeva benissimo di non essere ancora all’altezza di Diaspro o degli altri ragazzi più grandi, e perciò badava al proprio lavoro e tirava avanti come al solito. Alla fine dell’estate, l’attività era un po’ rallentata e c’era più tempo per gli svaghi: regate di barche incantate nel porto, esibizioni d’illusioni nei cortili della Grande Casa, e durante le lunghe serate, nei boschetti, folli giochi a nascondino in cui quelli che si nascondevano e quello che li cercava erano invisibili, e solo le voci si muovevano ridendo e chiamando tra gli alberi, seguendo e schivando le rapide e fioche luci incantate. Poi, quando venne l’autunno, l’attività riprese, e incominciarono a esercitarsi in nuove magie. Perciò i primi mesi a Roke passarono presto per Ged, e furono pieni di passioni e di meraviglie.

L’inverno fu diverso. Ged fu mandato con altri sette ragazzi dall’altra parte dell’isola di Roke, al promontorio più settentrionale e più lontano, dove sorge la Torre Isolata. Là viveva tutto solo il maestro dei nomi, il quale veniva chiamato con un nome che non aveva significato in nessuna lingua: Kurremkarmerruk. Intorno alla torre, per miglia e miglia, non c’erano fattorie né abitati. Sorgeva torva sulle scogliere settentrionali, e grige erano le nubi sui mari invernali, e interminabili gli elenchi e le liste dei nomi che gli otto discepoli del maestro dovevano imparare. In mezzo a loro, nella stanza più alta della torre, Kurremkarmerruk sedeva su un seggio imponente, scrivendo liste di nomi che dovevano venire appresi prima che l’inchiostro svanisse a mezzanotte, lasciando nuovamente bianca la pergamena. Era freddo, là, e c’erano sempre semioscurità e silenzio, interrotto solo dallo scricchiolio della penna del maestro e dai sospiri di qualche studente che prima di mezzanotte doveva imparare i nomi di ogni capo, punta, baia, stretto, rada, canale, porto, secca, scogliera e roccia delle spiagge di Lossow, una minuscola isoletta del mare di Peln. Se lo studente si lagnava, il maestro magari non diceva nulla ma allungava l’elenco; oppure diceva: — Colui che vuole diventare maestro del mare deve conoscere il vero nome di ogni goccia d’acqua che il mare racchiude.

Qualche volta Ged sospirava, ma non si lagnava mai. Capiva che in quel polveroso e interminabile dovere d’imparare il vero nome di ogni luogo e cosa e essere, il potere che lui cercava stava come una gemma sul fondo di un pozzo inaridito. Perché la magia consiste in questo: dare il vero nome a una cosa. Kurremkarmerruk l’aveva detto loro, una volta, la prima notte dopo il loro arrivo alla torre; non l’aveva più ripetuto, ma Ged non aveva dimenticato le sue parole. — Molti maghi di grande potere — aveva detto, — hanno trascorso tutta la vita cercando di scoprire il nome di una sola cosa… un solo nome perduto o celato. E gli elenchi non sono ancora compiuti. E non lo saranno mai, fino alla fine del mondo. Ascoltate, e comprenderete il perché. Nel mondo sotto il sole, e in quell’altro mondo che non ha sole, ci sono molte cose che non hanno nulla in comune con gli uomini e il linguaggio degli uomini, e ci sono poteri che trascendono i nostri poteri. Ma la magia, la vera magia, è operata solo dagli esseri che parlano la lingua hardese di Earthsea, o la Vecchia Favella da cui si è evoluta.

«È la lingua che parlano i draghi, è la lingua parlata da Segoy che creò le isole del mondo, è la lingua delle nostre ballate e dei nostri canti, incantesimi, sortilegi e invocazioni. Le sue parole permangono, mutate e nascoste tra le nostre parole in hardese. Noi chiamiamo la spuma delle onde sukien, e questa parola è formata da due termini della Vecchia Favella: suk, piuma, e inien, mare. La piuma del mare: è la spuma. Ma non potete incantare la spuma chiamandola sukien: dovete usare il suo vero nome nella Vecchia Favella, che è esta. Qualunque strega conosce alcune di queste parole nella Vecchia Favella, e un mago ne conosce molte. Ma ce ne sono assai di più, e alcune si sono perdute nel corso dei secoli, e alcune sono rimaste nascoste, e altre sono note soltanto ai draghi e alle Vecchie Potenze della Terra, e talune sono ignote a tutti gli esseri viventi; e nessuno potrebbe impararle tutte, perché quel linguaggio non ha fine.

«Eccone la ragione. Il nome del mare è inien, benissimo. Ma quello che noi chiamiamo mare Interno ha un suo nome anche nella Vecchia Favella. Poiché nessuna cosa può avere due veri nomi, inien può significare solo "tutto il mare eccettuato il mare Interno". E naturalmente non significa neppure questo, perché ci sono innumerevoli mari e baie e stretti che portano nomi esclusivi. Perciò, se qualche mago maestro del mare fosse così pazzo da tentare di lanciare un incantesimo di tempesta o di bonaccia su tutto l’oceano, dovrebbe enumerare non soltanto quella parola inien ma anche i nomi di ogni tratto e di ogni parte del mare in tutto l’arcipelago e in tutti gli stretti Esterni e ancora più oltre, fin dove i nomi cessano di esistere. Quindi, ciò che ci dà il potere di operare magie fissa i limiti di tale potere. Un mago può controllare solo ciò che gli è vicino, ciò che lui può chiamare col nome esatto e completo. Ed è bene che sia così. Altrimenti la malvagità dei potenti o la follia dei saggi avrebbero cercato già da tempo di cambiare ciò che non può essere cambiato, e l’equilibrio verrebbe meno. Il mare, sbilanciato, travolgerebbe le isole su cui dimoriamo così pericolosamente, e nell’antico silenzio tutte le voci e tutti i nomi andrebbero perduti.

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