Un uomo vestito di scuro — un dipendente delle pompe funebri, secondo Shadow — disse: «Vuole firmare il libro delle condoglianze e dei ricordi?», e gli indicò un volume rilegato in pelle aperto su un piccolo leggio.
Scrisse SHADOW e la data con la sua calligrafia precisa, poi, lentamente, aggiunse (CUCCIOLO) rinunciando ad arrivare in fondo alla sala dove c’era la gente e la bara e quella cosa dentro la bara color crema che non era più Laura.
Una donna minuscola entrò e si fermò esitante sulla porta. Aveva i capelli color rame, era tutta vestita di nero, abiti molto costosi. La vedova in gramaglie, pensò Shadow, che la conosceva bene. Era Audrey Burton, la moglie di Robbie.
Stringeva tra le mani un mazzo di violette avvolto nella carta di alluminio. Il tipo di mazzolino che una bambina potrebbe cogliere in giugno, pensò lui. Però adesso le violette erano fuori stagione.
Quando attraversò la sala per avvicinarsi alla bara Shadow la seguì.
Laura giaceva con gli occhi chiusi e le braccia incrociate sul petto. Indossava un elegante tailleur blu che lui non le aveva mai visto. I lunghi capelli castani erano pettinati ordinatamente, lontani dagli occhi. Era la sua Laura e al tempo stesso non lo era: la cosa più innaturale, pensò, era quel modo di riposare in pace, perché Laura dormiva sempre sonni agitati.
Audrey le posò le violette sul petto. Poi contrasse le labbra e le sputò con determinazione sulla faccia.
Lo sputo cadde sulla guancia e cominciò a scivolare verso l’orecchio.
Audrey si stava già avviando alla porta. Shadow la rincorse.
«Audrey?»
«Shadow? Sei scappato? O ti hanno fatto uscire?»
Lui si domandò se Audrey fosse sotto l’effetto dei tranquillanti. Parlava in tono distante, distaccato.
«Mi hanno rilasciato ieri. Sono un uomo libero. Che cosa diavolo significa, quella scena?»
In corridoio lei si fermò. «Le violette? Sono sempre state il suo fiore preferito. Una volta le raccoglievamo insieme.»
«No, non le violette.»
«Ah, quello.» disse. Si ripulì un’invisibile macchietta all’angolo della bocca. «Be’, credevo che fosse ovvio.»
«Non per me, Audrey.»
«Non te l’hanno detto?» La sua voce era fredda e calma. «Tua moglie è morta con l’uccello di mio marito in bocca.»
Shadow tornò nella sala. Qualcuno aveva già ripulito lo sputo.
Dopo pranzo — mangiò da Burger King — ci fu il funerale. La bara color crema venne interrata nel piccolo cimitero non confessionale e senza recinzione al confine della città: un prato collinare coperto di lastre tombali di granito nero e marmo bianco.
Arrivò al cimitero a bordo del carro funebre insieme alla madre di Laura. La signora McCabe sembrava credere che la morte della figlia fosse colpa di Shadow. «Se fossi stato a casa» disse, «non sarebbe successo. Non so perché ti abbia sposato. Io gliel’avevo detto. Gliel’avevo ripetuto all’infinito. Ma non si dà mai retta alla mamma, vero?» Si interruppe per guardare più da vicino la faccia del genero. «Hai fatto a botte?»
«Sì.»
«Barbaro» disse lei, poi irrigidì le labbra, alzò la testa fino a far tremare il mento e fissò dritto davanti a sé.
Shadow si stupì di vedere anche Audrey Burton al cimitero, un po’ in disparte. La breve funzione terminò e la bara venne fatta calare nella terra fredda. Tutti se ne andarono via.
Shadow si fermò lì. Rimase in piedi con le mani in tasca, a rabbrividire, a fissare la fossa.
Sopra di lui il cielo era color grigio ferro, una superficie monotona e piatta come uno specchio. Continuava a nevicare, in modo irregolare, in fiocchi spettrali.
C’era qualcosa che voleva dirle, e avrebbe aspettato il tempo necessario a capire cosa fosse. Il mondo cominciava piano piano a perdere luminosità e colore. Gli sembrava di non avere più sensibilità nei piedi, le mani e la faccia gli dolevano per il freddo. Affondò le mani nelle tasche per riscaldarle e strinse le dita intorno alla moneta d’oro.
Si avvicinò alla tomba.
«Tieni, è per te» disse.
Sul coperchio della bara era stata rovesciata qualche palata di terra, ma la fossa era tutt’altro che piena. Dopo aver gettato la moneta nella tomba buttò dentro un altro po’ di terra, per nascondere il luccichio dell’oro agli occhi di eventuali becchini ladri. Si ripulì le mani e disse: «Buona notte, Laura». Poi aggiunse: «Mi dispiace». Guardò le luci della città e si incamminò verso Eagle Point.
Il motel si trovava ad almeno tre chilometri di strada, ma dopo tre anni in prigione Shadow era attratto dall’idea di poter camminare liberamente, anche per sempre, se avesse voluto. Avrebbe potuto continuare a camminare verso nord, fino in Alaska, oppure dirigersi a sud, fino al Messico o ancora più in là. Volendo sarebbe potuto arrivare in Patagonia o nella Terra del Fuoco.
Si avvicinò una macchina. Il finestrino si abbassò.
«Vuoi un passaggio?» chiese Audrey Burton.
«No. E non da te.»
Proseguì. Audrey gli si affiancò, procedendo a sei chilometri all’ora. I fiocchi di neve cadevano danzando tra i raggi di luce dei fanali.
«Credevo che fosse la mia migliore amica» disse Audrey. «Ci sentivamo tutti i giorni. Quando io e Robbie litigavamo lei era la prima a saperlo… andavamo da Chi-Chi a bere un margarita e a raccontarci quanto sono canaglie gli uomini. E intanto alle mie spalle se lo scopava.»
«Vai via, per favore.»
«Volevo solo spiegarti che avevo le mie buone ragioni per fare quello che ho fatto.»
Shadow non rispose.
«Ehi!» gridò Audrey. «Ehi! Sto parlando con te!»
Lui si voltò. «Vuoi che ti dica che hai fatto bene a sputarle in faccia? Vuoi che ti dica che non mi ha ferito? Oppure dovrei dirti che le tue parole mi fanno provare più odio che nostalgia per mia moglie? Non te lo dirò mai, Audrey.»
Lei continuò a procedere a passo d’uomo per un minuto, senza parlare, poi disse: «Allora, com’era la prigione?».
«Non male. Ti ci saresti sentita a casa.»
A quel punto Audrey schiacciò il pedale dell’acceleratore e con un rombo del motore si allontanò.
Una volta spariti i fari dell’automobile il mondo diventò buio, mentre il crepuscolo cedeva alla tenebra. Shadow continuava a sperare di riscaldarsi, camminando, di sentir arrivare il calore fino alle mani e ai piedi gelati, ma era sempre più intirizzito.
Ancora in prigione, Low Key Lyesmith un giorno si era riferito al piccolo cimitero carcerario dietro l’infermeria come all’Orto delle Ossa, e l’immagine aveva messo radici dentro Shadow. Quella notte aveva sognato un orto sotto la luna, scheletrici alberi bianchi, con i rami che terminavano in mani scarnificate, le radici affondate nelle tombe. Crescevano frutti su quegli alberi nell’Orto delle Ossa, nel sogno, e c’era qualcosa che lo inquietava in quei frutti onirici, ma al risveglio non era riuscito a ricordare di che cosa si trattasse esattamente, né del perché li avesse trovati tanto repellenti.
Le automobili gli passavano accanto. Avrebbe preferito camminare su un marciapiede. Inciampò in qualcosa che non aveva visto a causa dell’oscurità e finì nel fossato, la mano destra che affondava nel fango freddo per parecchi centimetri. Si rialzò e si ripulì le mani sui pantaloni. Rimase lì in piedi, a disagio. Fece appena in tempo a rendersi conto di non essere solo e di una cosa bagnata che gli veniva premuta contro naso e bocca; sentì un odore acre, chimico.
Questa volta il fossato gli sembrò tiepido, e comodo.
L’impressione era che le tempie gli fossero state riattaccate al cranio con dei grossi chiodi. Aveva le mani legate dietro la schiena con un laccio ed era seduto sul sedile rivestito di pelle di un’automobile. Per un istante si chiese se non ci fosse qualcosa che non andava nella sua percezione della distanza e poi capì che no, l’altro sedile era davvero molto lontano.
C’era qualcuno dietro di lui, ma non era in grado di girarsi a guardare.