«Allora, com’è che fai apparire le monete?» chiese. Ondeggiò e si scansò, prendendo sulla spalla un pugno diretto al naso.
«Te l’ho detto prima» borbottò Sweeney. «Ma non c’è peggior cieco — ahi! Ben piazzato! — di chi non vuol sentire.»
Shadow lo colpì al mento costringendolo ad arretrare contro un tavolo, e i bicchieri vuoti e i portacenere si frantumarono a terra. In quel momento lo avrebbe potuto finire.
Diede un’occhiata a Wednesday, che gli fece un cenno di assenso, poi guardò Mad Sweeney, steso sotto di lui. «Abbiamo finito?» chiese. L’altro esitò, poi annuì. Shadow lasciò la presa e arretrò di alcuni passi. Ansante, Sweeney riuscì a rimettersi verticale.
«Col cazzo!» gridò. «È finita quando lo dico io!» Poi sorrise e si slanciò in avanti cercando di colpire Shadow. Scivolò su un cubetto di ghiaccio finito per terra e mentre i piedi lo tradivano facendolo cadere sulla schiena, il sorriso si trasformò in un’espressione costernata. Rimase a bocca aperta e picchiò la testa sul pavimento del bar con un bel tonfo.
Shadow gli appoggiò un ginocchio sul petto. «Te lo chiedo per la seconda volta, abbiamo finito di picchiarci?»
«Diciamo di sì» rispose Sweeney sollevando la testa, «perché al momento il piacere mi ha abbandonato come la pipì che scappa a un bambino dentro una piscina in una giornata calda.» Sputò un po’ di sangue, chiuse gli occhi e cominciò a russare, un russare profondo e imponente.
Qualcuno batté una pacca sulla schiena di Shadow. Wednesday gli infilò in mano una bottiglia di birra.
Era molto meglio dell’idromele.
Si svegliò sdraiato sul sedile posteriore di una macchina. Il sole del mattino era abbagliante e gli faceva male la testa. Si mise seduto e si sfregò gli occhi.
Al volante c’era Wednesday che canticchiava stonato. Nel portabibite vide una tazza di plastica. Erano in autostrada. Il posto accanto a quello di guida era vuoto.
«Come ti senti, in questo bel mattino?» chiese Wednesday senza voltarsi.
«Che ne è stato della mia macchina? L’avevo noleggiata.»
«L’ha riportata indietro Mad Sweeney. Era nei patti. Dopo la scazzottata di ieri notte.»
I discorsi della sera prima si confondevano in maniera spiacevole nella testa di Shadow. «Non hai un po’ di caffè anche per me?»
Wednesday allungò una mano sotto il sedile e gli passò una bottiglia d’acqua ancora chiusa. «Tieni. Devi essere disidratato. Questa ti farà meglio del caffè, per ora. Alla prossima area di servizio ci fermiamo, così puoi fare colazione. Ti devi anche dare una ripulita. Sembra che tu abbia dormito con la capra.»
«Si dice con il gatto.»
«Con la capra. Un enorme caprone puzzolente coi dentoni.»
Shadow aprì la bottiglia e bevve. Sentì qualcosa tintinnare nel taschino. Infilò una mano e ne estrasse una moneta grande come un mezzo dollaro. Era pesante, e di un bel giallo oro.
Nell’area di servizio comperò un kit da viaggio che conteneva rasoio, crema da barba, pettine e spazzolino usa e getta con un minuscolo tubo di dentifricio. Poi entrò nel bagno degli uomini e si guardò allo specchio.
Aveva un livido sotto un occhio — quando provò a schiacciarlo con un dito scoprì che faceva molto male — e il labbro inferiore gonfio.
Si lavò la faccia con il sapone liquido che c’era in bagno, poi si fece la barba e si lavò i denti. Si inumidì i capelli e li pettinò all’indietro. Aveva ancora un aspetto malconcio.
Si domandò che cos’avrebbe detto Laura, vedendolo così, poi ricordò che Laura non avrebbe mai più detto niente, e nello specchio si vide tremare, ma solo per un momento.
Uscì.
«Sono uno schifo» disse.
«È naturale» rispose Wednesday.
Wednesday prese un grande assortimento di merendine e le portò alla cassa pagando anche la benzina, ma cambiò due volte idea su come farlo, se con la carta di credito o in contanti, provocando l’irritazione della ragazza che masticava gomma dietro il registratore di cassa. Shadow rimase a osservare Wednesday che si faceva prendere sempre più dall’agitazione e continuava a scusarsi. Sembrava molto vecchio, all’improvviso. La cassiera prima gli diede il resto in contanti e addebitò la spesa sulla carta, poi gli diede la ricevuta e prese i contanti, poi restituì i contanti e accettò una carta diversa. Wednesday stava palesemente per scoppiare a piangere, come un vecchietto incapace di tenere il passo con l’implacabile marcia del mondo moderno.
Quando uscirono dall’area di servizio riscaldata il loro fiato si condensò nell’aria.
Di nuovo in marcia: campi di erba quasi marrone scorrevano dai finestrini. Gli alberi erano spogli, senza vita. Due uccelli neri li fissavano dai fili del telegrafo.
«Ehi, Wednesday.»
«Sì?»
«Secondo me non hai pagato la benzina.»
«Ah sì?»
«Secondo me è finita che è stata lei a pagare te per il privilegio di averti fatto il pieno. Credi che se ne sia accorta, dopo?»
«Non se ne accorgerà mai.»
«Ma chi sei, insomma? Un imbroglione da due soldi?»
Wednesday annuì. «Sì» disse. «Credo di sì. Insieme a molte altre cose.»
Si immise sulla corsia di sinistra per sorpassare un camion. Il cielo era di un grigio fosco e uniforme.
«Nevicherà» disse Shadow.
«Sì.»
«Senti, Sweeney me l’ha fatto vedere davvero il trucco con le monete d’oro?»
«Oh sì.»
«Non riesco a ricordarmelo.»
«Ti tornerà in mente. È stata una lunga serata.»
Qualche piccolo fiocco di neve sfiorò il parabrezza, sciogliendosi subito.
«Il corpo di tua moglie è esposto nella sala mortuaria delle Pompe funebri Wendell» disse Wednesday. «Dopo pranzo la porteranno al cimitero per la sepoltura.»
«Come fai a saperlo?»
«Ho telefonato mentre eri al cesso. Sai dove sono le Pompe funebri Wendell?»
Shadow annuì. I fiocchi di neve volteggiavano confusi.
«Questa è l’uscita» disse. L’automobile lasciò l’Interstate e superò una serie di motel diretta a Eagle Point Nord.
Erano passati tre anni. Sì. C’era qualche semaforo in più, vetrine di negozi sconosciuti. Shadow chiese a Wednesday di rallentare, quando passarono davanti alla Muscle Farm, CHIUSO FINO A DATA DA DESTINARSI recitava il cartello scritto a mano affisso sulla porta, PER LUTTO.
A sinistra sulla Main Street. Oltre il nuovo salone per tatuaggi e il Centro di reclutamento delle Forze armate, poi il Burger King e, familiare e immutato, l’Olsen’s Drug Store, infine la facciata di mattoni gialli delle Pompe funebri Wendell. Un’insegna al neon nella vetrina diceva CASA DELL’ETERNO RIPOSO. Sotto l’insegna giacevano lastre tombali senza nome e senza incisioni decorative.
Wednesday si fermò nel parcheggio.
«Vuoi che venga con te?» chiese.
«Non particolarmente.»
«Bene.» Il sorriso senza allegria comparve rapido. «Mentre tu dici i tuoi addii io mi posso occupare d’altro. Vado a fissare due stanze al Motel America. Raggiungimi, quando hai finito.»
Shadow scese dalla macchina e rimase a guardarla allontanarsi. Poi entrò. Il corridoio poco illuminato odorava di fiori e cera per mobili, con appena una nota di formaldeide. In fondo c’era la cappella dell’Eterno riposo.
Shadow si accorse che stava giocherellando con la moneta d’oro, la passava in modo convulso dal dorso al palmo e viceversa, ininterrottamente. Ne trovava rassicurante il peso.
Il nome di sua moglie era scritto su un foglio appeso alla porta in fondo. Entrò nella cappella. Conosceva quasi tutti: i colleghi di Laura, gli amici.
Lo riconobbero anche loro. Glielo si leggeva in faccia. Nessun sorriso, però, nemmeno un ciao.
In fondo alla sala c’era un piccolo palco e, sopra il palco, una bara color crema con intorno vari addobbi floreali: rossi e gialli, bianchi e viola scuro. Fece un passo avanti. Dal punto in cui si trovava vedeva il corpo di Laura. Non voleva avvicinarsi di più, però non osava andarsene.