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«No, grazie.»

«Le dispiace se fumo io?»

«Assolutamente no.»

L’autista accese con un Bic usa e getta e fu alla luce gialla della fiammella che Shadow lo vide in faccia, per la prima volta, in effetti e, riconoscendolo, cominciò a capire.

Conosceva quella faccia scarna. Sapeva che sotto il berretto con visiera c’erano i capelli color carota, tagliati a spazzola. Sapeva che se avesse sorriso, intorno alle labbra sarebbe apparso un reticolo di profonde cicatrici.

«Sembri in forma, ragazzo» disse.

«Low Key?» Shadow fissava circospetto il vecchio compagno di cella.

Le amicizie nate in prigione sono una bella cosa: ti aiutano a sopravvivere a luoghi atroci e a tempi bui. Però, davanti ai cancelli chiusi del penitenziario finiscono, e un vecchio compagno di cella che ricompare all’improvviso è, nel migliore dei casi, una fortuna con il rovescio della medaglia.

«Cazzo. Low Key Lyesmith» disse Shadow, e sentendo quello che aveva appena detto capì. «Loki» disse. «Loki Lie-Smith, fabbro di menzogne.»

«Sei lento» ribatté Loki, «però alla fine ci arrivi.» E mentre la bocca si piegava in un sorriso sfregiato, il suo sguardo ombroso sprigionava scintille.

Sedevano nella stanza di Shadow nel motel abbandonato, alle due estremità del letto. Dalla camera del ragazzo non arrivava più nessun rumore.

«Hai avuto fortuna a incontrarmi dentro» disse Loki. «Non ce l’avresti mai fatta a sopravvivere al primo anno, senza di me.»

«Perché non te ne sei andato quando ti pareva?»

«È più semplice scontare tutta la pena.» Dopo una pausa aggiunse: «Tu devi capire questa faccenda degli dèi. Non ha niente a che vedere con la magia. Riguarda te, ma nel senso di quello che la gente crede che tu sia. Riguarda il fatto di diventare l’essenza concentrata e ingigantita di te stesso. È come diventare tuono, o la potenza di un cavallo lanciato al galoppo, o la saggezza. Assorbì tutta la fede e diventi più grande, più forte, sovrumano. Ti cristallizzi». Si interruppe. «E poi un giorno si dimenticano di te, non credono più in te, non ti offrono sacrifici, se ne fregano, e in men che non si dica ti ritrovi a fare il gioco delle tre carte all’angolo tra Broadway e la Quarantatreesima.»

«Perché eri in cella con me?»

«Pura e semplice coincidenza.»

«E adesso fai l’autista per gli avversari.»

«Se vuoi definirli così. Dipende dal punto di vista. Per come la vedo io, faccio l’autista per la squadra vincente.»

«Però tu e Wednesday siete tutti e due… appartenete tutti e due al…»

«Al pantheon norreno? Apparteniamo entrambi al pantheon scandinavo. È questo che volevi dire?»

«Sì.»

«E dunque?»

Shadow esitò. «Dovevate essere amici, un tempo.»

«No? Mai stati amici. Non mi dispiace che sia morto. Ci impediva di andare avanti. Con la sua morte gli altri dovranno guardare in faccia la realtà: cambiare o soccombere, evolversi o perire. Lui non c’è più. La guerra è finita.»

Shadow lo guardò con aria perplessa. «Non puoi dire una stupidaggine simile» disse. «Sei sempre stato intelligente. La morte di Wednesday non metterà fine proprio a niente, anzi, spingerà tutti gli indecisi a saltare il fosso.»

«Mai mescolare metafore, Shadow. È una brutta abitudine.»

«Comunque è la verità. Cazzo. Con la sua morte, in un istante ha ottenuto quello che stava cercando di fare da mesi. Li ha fatti sentire tutti uniti. Ha dato loro qualcosa in cui credere.»

«Può darsi.» Loki scrollò le spalle. «Per quanto ne so io, dalla mia parte pensano tutti che con la scomparsa del piantagrane siano finite le grane. Comunque non sono affari miei. Io faccio l’autista.»

«Allora dimmi» riprese Shadow, «perché tutti si interessano a me? Si comportano come se fossi importante. Perché quello che faccio io deve avere qualche importanza?»

«Che sia dannato se ti posso rispondere. Per noi eri importante perché eri importante per Wednesday. In quanto alla ragione… credo che sia un altro dei piccoli misteri dell’esistenza.»

«Sono stufo di misteri.»

«Ah sì? A me pare che aggiungano qualcosa al mondo. Come un pizzico di sale nello stufato.»

«Così tu sei l’autista. Lavori per tutti?»

«Per chiunque abbia bisogno di me» disse Loki. «È un modo per guadagnarsi da vivere.»

Avvicinò il quadrante dell’orologio da polso agli occhi e premette un pulsante: una delicata luce azzurrognola gli illuminò il viso dandogli un aspetto stregato, stregonesco. «Mancano cinque minuti a mezzanotte» disse. «Vieni?»

Shadow fece un respiro profondo. «Vengo» rispose.

Percorsero il corridoio fino alla camera numero cinque.

Loki prese una scatola di fiammiferi dal taschino e ne accese uno usando l’unghia del pollice. Il bagliore improvvisò ferì gli occhi di Shadow. Lo stoppino di una candela si accese con un tremito. Poi un’altra. Loki ripeté l’operazione con un nuovo fiammifero continuando ad accendere i mozziconi di candela appoggiati sui davanzali, sulla testiera del letto e sul lavandino nell’angolo.

Il letto era stato spostato nel mezzo della stanza in modo che tutt’intorno ci fosse un po’ di spazio, tra il materasso e il muro. Era stato coperto con vecchie lenzuola del motel, piene di buchi e di macchie, e sopra le lenzuola giaceva Wednesday, perfettamente immobile.

Indossava il vestito chiaro che portava quando gli avevano sparato. Il lato destro della faccia, intatto, non era deturpato. La parte sinistra era uno sfigurato ammasso di carne, e sulla spalla e sul davanti della giacca c’erano macchie scure. Aveva le braccia distese lungo i fianchi. La sua espressione era tutt’altro che pacifica: sembrava ferito, ferito nell’anima; una ferita tremenda, profonda, piena di rabbia, odio e follia. E, a un certo livello, era un’espressione soddisfatta.

Shadow immaginò le abili mani del signor Jacquel che cancellavano quell’odio e quel dolore e ricostruivano il volto di Wednesday con cerone e cosmetici da impresario di pompe funebri, dandogli la pace e la dignità finali che perfino la morte gli aveva negato.

Comunque il corpo senza vita non sembrava più piccolo. E puzzava ancora leggermente di Jack Daniel’s.

Il vento delle pianure cominciava a soffiare: lo si sentiva ululare intorno al vecchio motel nel centro immaginario dell’America. Le fiammelle delle candele sul davanzale tremolarono.

Si sentirono dei passi lungo il corridoio. Qualcuno bussò a una porta dicendo «Facciamo in fretta, per favore. È arrivato il momento» e cominciarono a entrare tutti, a testa bassa.

Per primo Town, seguito da Media, dal signor Nancy e da Chernobog. Per ultimo il ragazzo grasso con ecchimosi recenti sulla faccia e le labbra in perenne movimento, come se stesse recitando qualcosa tra sé senza emettere suono. Shadow provò pena per lui.

Si disposero informalmente intorno al corpo, a distanza di un braccio uno dall’altro. L’atmosfera nella stanza era religiosa — religiosa in una maniera profonda e per Shadow completamente nuova. Gli unici suoni erano il vento e il crepitio delle candele.

«Siamo qui riuniti in un luogo senza dèi» cominciò Loki «per affidare il corpo di quest’individuo a coloro che ne disporranno in modo appropriato secondo il rito. Se qualcuno vuole dire qualcosa parli ora.»

«Io no di certo» disse Town. «Non l’ho mai incontrato, si può dire. E tutta questa storia non mi piace.»

Parlò Chernobog: «Le azioni hanno conseguenze. Lo sapete, vero? È soltanto l’inizio».

Il ragazzo grasso ridacchiò con una vocetta stridula, femminile. Disse: «D’accordo, d’accordo, ho capito». E tutto d’un fiato recitò:

Girando e girando nella spirale che si allarga

Il falco non può udire il falconiere;

Le cose crollano; il centro non può reggere…

Si interruppe di colpo, aggrottando la fronte. «Merda. Una volta la sapevo tutta.» Si sfregò le tempie con una smorfia e rimase in silenzio.

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