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Donna era buona. Sembrava rendersi conto che era pentito di averle detto qualcosa, e smise di punzecchiarlo, persino di fargli domande. Ma quando lo guardava c’era un luccichio nei suoi occhi, un gaio bagliore di complicità. Lui non voleva vederlo. Donna era a posto, Donna era una gran brava persona, ma come poteva, una come lei, comprendere quello che gli era accaduto?… la stranezza, il mistero, la tragica paura; la bella donna in pericolo che lui amava in silenzio, il silenzio dell’adorazione, il silenzio dell’immutabile crepuscolo delle foreste di quel mondo.

Il mondo del giorno e della notte fu piuttosto strano, per tutta la settimana. Hugh aveva previsto che l’impazienza di ritornare alla piccola città sulla montagna rendesse dura l’attesa, ma non era così. Anzi, assaporava e tesaurizzava quei giorni quando, al lavoro o mentre tornava a casa a piedi, o in casa, poteva covare il pensiero della sua principessa e lasciare che il nome di lei gli riempisse la mente, anziché starsene goffo e ammutolito in sua presenza, incapace di parlarle, tentando di intuire ciò che lei diceva.

Non andò al ruscello, le mattine di quella settimana. Aveva paura di rischiare, di trovare la porta chiusa. Non si fidava di se stesso. Perché era stato così stupido, perché aveva continuato oltre la soglia che non c’era, proseguendo e proseguendo quando sapeva che il sentiero non conduceva in nessun posto? Se, appena aveva visto che la porta non era aperta, fosse ritornato subito alla Città della Montagna e avesse chiesto aiuto alla ragazza, si sarebbe risparmiato quell’incubo, la camminata interminabile, quando aveva detto a se stesso che se avesse continuato a procedere sarebbe «uscito», e il panico l’aveva sopraffatto quando aveva creduto di aver perduto la strada, e il terrore, e la fame. Era stato tutto stupido e inutile, e l’aveva lasciato così esausto che adesso trovava le giornate lavorative lunghe e faticose, per tutta la settimana, non solo, ma diffidava di se stesso, e di quel luogo.

— È proprio qui che non ho paura — aveva detto alla ragazza (nella casa di Allia, nella lunga sala con le finestre piene del chiaro crepuscolo), ma adesso non era più vero. Adesso conosceva un po’ il rischio che avrebbe potuto correre, tornando lì. E sapeva anche che conosceva solo un po’ quel rischio. Là c’era pericolo; e non poteva essere certo che avrebbe agito in modo razionale. Tenendo conto di questo e dell’inaffidabilità della porta, gli sembrava giusto valutare non più del cinquanta per cento le probabilità di ritornare indietro. Riteneva che facesse parte dell’equilibrio tra i due luoghi, e l’accettava. Era l’occasione, il servizio che desiderava. Ma comunque, finché era lì nel mondo comune, con le solite possibilità illusone e nulla di più grande del normale da affrontare, si sarebbe goduto la luce del giorno.

Nei confronti di sua madre provava la compunzione, la pazienza dolente della slealtà potenziale, forzata solo dall’implacabile stizzosità di lei. Lei non gli perdonava nulla. Il suo ritorno con un paio d’ore di ritardo, domenica pomeriggio, aveva fatto piovere su di lui l’accusa che non meritava nessuna fiducia. Lui lo capiva, ma non comprendeva perché il suo sfinimento inequivocabile (spiegato malamente con la scusa che «si era perduto in una scorciatoia») avesse destato in lei ostilità e disprezzo. — Ti sei perduto nei boschi? Perché eri andato nei boschi? Se non sai badare a te stesso è una cosa stupida, stupida, stupida. Quelli come te dovrebbero andare in palestra. Non sei adatto, come giovane esploratore. Che cosa stai cercando di dimostrare? — E avanti e avanti, parlando con un’irritazione irrefrenabile, sembrava, che lo induceva a pensare che non fosse il suo ritorno in quello stato a infuriarla, ma piuttosto il fatto che fosse ritornato. Ma non aveva senso.

Da un po’ di tempo, lei usciva tre o quattro sere la settimana, qualche volta fino a mezzanotte, per le sue sedute con Durbina. Molti altri che avevano interesse per lo spiritismo s’erano uniti a loro. Mrs. Rogers aveva dimostrato di avere doti medianiche: sapeva produrre la scrittura automatica senza andare in trance. Grazie al suo dono, ora stavano intrattenendo una vivace conversazione, o una corrispondenza, con una delle incarnazioni passate di Durbina, una sacerdotessa di Iside. Il tavolino del soggiorno dei Rogers era carico di libri sull’antico Egitto, presi a prestito da Durbina o, per quanto fossero costosi, comprati nuovi. Quando la sacerdotessa di Iside contraddiceva un’affermazione d’uno dei libri, o correggeva la traduzione errata di un geroglifico, Mrs. Rogers era trionfante. A volte, quando rientrava a casa, parlava eccitatissima di quel che era successo durante la seduta; ma appena Hugh cercava di rispondere, lei ridiscendeva sulla terra. — Naturalmente, a te queste cose non interessano — rispondeva, qualunque cosa lui avesse detto o domandato. Hugh vedeva che lei era felice, insieme a quella gente che ammirava e apprezzava le sue doti medianiche, e che si sentiva rifiorire. Ma non riusciva a portare a casa con sé la serenità e la felicità. I suoi nuovi interessi, anzi, accrescevano la sua diffidenza e il suo malcontento. Hugh non riusciva a far nulla che l’accontentasse. Se sua madre faceva il bucato si lamentava rabbiosamente delle calze spaiate, delle camicie con il colletto sporco e le macchie d’erba, delle magliette non rigirate nel modo giusto; ma se era lui a fare il bucato, lei lo rifaceva perché non l’aveva fatto bene. Se le portava a casa qualcosa dal supermercato perché era in offerta speciale o era un buon affare, lei diceva che era «roba vecchia», e la lasciava a muffire nel frigo fino a quando lui la buttava via. Quando erano in casa entrambi, sua madre gli faceva sentire che le dava sempre fastidio, ma non accennava a modificare la pretesa di trovarlo lì ogni volta che rientrava. Se usciva metà delle sere della settimana, si risentiva della sua presenza ma la esigeva; come avrebbe fatto, quando lui fosse ritornato…? Ma il fatto era che sarebbe andato. Di fronte a quella certezza le esigenze irriducibili di sua madre finirono per diventare insignificanti. La sua sgarberia e la sua impazienza lo ferivano, ma non profondamente; la volontà di Hugh s’era distolta da lei. Nessuna coltellata poteva raggiungerlo dove lui camminava pensando ad Allia.

Era il caldo, si diceva; tutti diventavano insofferenti, quando faceva così caldo.

Visse quasi sempre in silenzio i lunghi giorni di quella settimana. La notte non dormiva profondamente: c’erano molti sogni e risvegli, e più di una volta, nelle ore piccole, si alzava e andava alla finestra per un po’, a guardare le stelle o la prima, alta luce dell’alba.

Il venerdì Donna, che aveva i sabati liberi, gli chiese che cosa avrebbe fatto in quei giorni di vacanza, e lui rispose, come aveva deciso: — Andrò a fare una gita a piedi con certa gente che conosco. — Donna gli rivolse quell’occhiata fuggevole, di sottecchi, che sembrava sottintendere che, amando una donna, aveva meritato l’approvazione di tutto l’universo femminile, rappresentato da Donna… se era approvazione. Ma poi lei lo guardò in faccia e cambiò espressione. Gli posò la mano sul braccio. — Fai in modo che non ti succeda niente, Buck — gli disse.

— E cosa può succedermi?

— Non lo so! — disse lei, come se fosse stupita delle proprie parole, e rise.

Ma il suo sguardo e le sue parole e il tocco della mano dura e grassoccia, dalle unghie laccate di rosso, furono per lui come un talismano, l’assicurazione che in effetti c’era una persona preoccupata per lui, anche se invano, tramite l’intuizione che lui era nei guai o in pericolo.

Se le doti medianiche di sua madre la portavano a vedere la stessa cosa, lei gliene faceva una colpa, come testimonianza di slealtà, e non glielo perdonava.

Venerdì sera le disse che aveva intenzione di star fuori tutta domenica notte. Era ciò che aveva temuto, per tutta la settimana. Recitò, mormorando, il discorsetto che aveva preparato, sulla gita che intendeva fare con alcuni amici nel parco statale a nord della città, prendendo il primo autobus domenica mattina, per dormir fuori la domenica notte e ritornare lunedì pomeriggio. Sua madre non disse nulla. Tenne gli occhi sullo schermo del televisore, mentre lui parlava, e Hugh non poté essere certo che l’avesse ascoltato. Sebbene il peso vivo del rimorso gli rendesse difficile respirare, finì di parlare, e poi tacque, senza fare domande, senza permettersi di chiedere una conferma, un’autorizzazione, l’approvazione che desiderava, che aveva sempre desiderato, che non aveva mai ottenuto e che non avrebbe ottenuto mai. Ma non poteva permettersi neppure di andare in collera, e un po’ più tardi, quando il programma che piaceva a sua madre terminò e lei dovette alzarsi per spegnere il televisore, le chiese con la massima naturalezza possibile come era andata la seduta della sera prima. Sua madre non rispose. Prese un libro su Akhenaton e sedette a leggerlo, senza guardarlo e senza parlargli. Hugh cercò di convincersi che quel silenzio era più facile da sopportare di una tirata, ma mentre restava seduto in soggiorno con lei, cercando di leggere Time, si accorse che stava cominciando a tremare, come se avesse freddo. Si alzò e andò in camera sua. Lei non rispose, quando le augurò «Buona notte».

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