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— Rimarrai con noi? — le chiese.

Intendeva dire per sempre? Il tono era controllato; Irene non era sicura.

— Più a lungo che potrò. Ma dovrò tornare indietro.

Lui annuì.

— E poi, quando tenterò di venire di nuovo qui, se la porta sarà di nuovo chiusa…

— Per te si aprirà, credo.

Gli occhi del Padrone erano strani, bui come caverne: qualunque cosa dicesse, quell’espressione introversa non cambiava.

— Ma perché…

— Perché? Quando conosci la risposta, la domanda non esiste, quando non c’è risposta, non c’è mai stata una domanda. — Sembrava un proverbio, e la voce di lui era secca e un po’ beffarda; era così che le aveva sempre parlato, e il ritorno a quel tono la confortò.

— Quella è la tua strada — disse il Padrone.

Si girò di nuovo verso lo scrittoio e soggiunse, quasi con indifferenza: — La strada del sud e quella del nord.

— Potrei andare a nord? Se c’è qualcosa che non va… Potrei andare a cercare aiuto… portare un messaggio…?

— Non so — disse lui, lanciandole una breve occhiata; ma c’era un balenio di lode o di trionfo sul suo viso; e quella luce restò con lei, dopo che il Padrone, secondo le tranquille usanze della sua casa, l’ebbe condotta a salutare sua madre e a conversare con lei, e dopo che se ne fu andata a trascorrere con Trijiat il resto della giornata. Per la prima volta, pensò Irene, voleva qualcosa da lei. C’era qualcosa che poteva dargli, se avesse scoperto che cos’era. Si era avvicinata molto, quando aveva parlato di andare a nord. Lui aveva subito cambiato argomento, ma non prima che lei avesse scorto quel guizzo di gioia o di lode.

Se almeno avesse potuto comprenderlo meglio! Doveva prendere sul serio ciò che diceva semi-beffardamente a proposito delle domande e delle risposte: Lui, e lei, e tutti quanti, lì, erano soggetti alle leggi del luogo, leggi assolute come la legge di gravità, altrettanto difficili da eludere, altrettanto difficili da spiegare. Le aveva detto, se pure Irene aveva ben compreso, che nessuno degli abitanti poteva lasciare la città: una legge o un potere lo impediva. Ma era possibile che lei, dato che poteva venire a Tembreabrezi, fosse anche in grado di lasciarla. O forse aveva inteso dire che, poiché proveniva dall’esterno di quella terra, era esente dalle sue leggi e non era tenuta a obbedire? Era questo che aveva inteso? Ma lei gli avrebbe obbedito. Lui era la sua legge. Se av.esse potuto accontentarlo; se avesse scoperto ciò che voleva! Se lui avesse chiesto, in modo che lei potesse dare…

Quello fu il suo soggiorno più lungo nella Città della Montagna. Un tempo, le sue visite erano frequenti ma brevi; adesso che poteva trascorrere una settimana o due (una notte o un weekend, oltre la porta), se voleva, la porta era quasi sempre chiusa. Aveva sempre desiderato di trovarla aperta, di varcarla. Adesso era lì, insediata alla locanda, e come sempre lavorava con Sofir e Palizot, faceva visita ai suoi amici e giocava con i loro bambini. Tutti, come sempre, la facevano accomodare a tavola se stavano mangiando, la facevano lavorare con loro, se stavano lavorando, la facevano sentire subito a casa sua. Era stata la cosa più bella, un tempo, ed era ancora una gioia. Ma non le bastava più. Adesso le sembrava che vi fosse un elemento di falsità, di finzione. La pace che sentiva lì, l’impressione di essere a casa sua, era autentica per loro, ma non per lei. Lei veniva e poi se ne andava di nuovo, e non faceva veramente parte della loro vita. Non avevano bisogno che li aiutasse a lavorare. Non avevano bisogno di lei.

A meno che, come aveva indicato il Padrone (ma l’aveva fatto davvero?) lei potesse aiutarli, non venendo lì, non restando lì, ma andando oltre.

Nessuno, tranne il Padrone, aveva ancora detto che qualcosa non andava; perciò, in un primo momento, Irene non vi fece gran caso. Poi, quando notò che in effetti nessuno veniva in città e nessuno la lasciava, che portavano le greggi solo ai pascoli più vicini, che scarseggiavano il sale e la farina di frumento, che quando Trijiat perse il suo ago da cucito rimase sconvolta e lo cercò per giorni… quando notò questo e quello, comprese che quanto aveva detto il Padrone era vero: tutte le strade erano chiuse. Ma perché? Da chi, da che cosa? Un paio di volte cercò di parlarne, con Trijiat, con Sofir; e quelli evitarono di rispondere, Sofir con una risata priva di significato, Trijiat con tanta paura che Irene comprese che non avrebbe più potuto affrontare l’argomento. Era un tabù, o un timore così profondo che non potevano parlarne. Non parlavano d’altro che delle attività della giornata, e fingevano che non vi fosse nulla di strano. E quella era la falsità che percepiva, il disagio. Avevano bisogno di aiuto, ma non volevano ammetterlo.

Come sarebbe stato il viaggio oltre Tembreabrezi, verso nord, giù alle pianure?

Un paio di anni prima, durante una lunga domenica dall’altra parte, Irene era andata con Sofir e il vecchio Homim, il mercante, e i suoi uomini e un convoglio di minuscoli asinelli carichi di stoffe, prima a un villaggio a nord, a un giorno di cammino oltre il dosso della montagna, e poi fino a una piccola città chiamata Tre Fontane, ai piedi delle colline a nord-est; erano rimasti là due giorni per commerciare, e poi erano ritornati, sei giorni di viaggio in tutto. Irene ricordava dove la strada per Tre Fontane svoltava verso est, e la strada del nord proseguiva diritta, verso un passo buio. Quanto erano più in basso le pianure, rispetto a quel punto? E quanto era lontana, attraverso le pianure, la Città di cui parlavano? Irene non ne aveva idea: molti giorni di cammino, senza dubbio, ma lei avrebbe potuto portare con sé i viveri, e sicuramente ci sarebbero stati villaggi e cittadine lungo la via, e quindi avrebbe potuto attraversare le lunghe pianure crepuscolari e giungere alla Città e chiedere aiuto per Tembreabrezi. Se quelli avrebbero mandato gli aiuti. O forse anche a lei era proibito percorrere le strade? Ma non avevano il diritto di proibirglielo. Se il Padrone le avesse chiesto di andare, sarebbe andata.

Lui non la mandò a chiamare. Irene divenne impaziente e irrequieta. Non capiva i suoi amici, che continuavano a lavorare e non parlavano mai di quel che non andava, come malati di cancro che dicessero «Sto benissimo, sto benissimo,» come sua madre che diceva sempre «Tutto va per il meglio»; non voleva pensare a questo, lì, e si risentiva d’essere costretta a pensarci. Perché non ne parlavano? Perché non facevano qualcosa? Che stavano aspettando?

Finalmente, il Padrone la convocò per un raduno in casa sua. Era già stata invitata altre volte a quei raduni. Le transazioni d’affari venivano trattate soprattutto nella sala grande della locanda, ma le decisioni che riguardavano qualcosa di più del commercio venivano prese durante lunghe, pensose conversazioni nella sala dai due camini. Venivano uomini e donne; e non sempre, ma spesso, il Signore del Maniero, e i visitatori di altre città più ricchi e raffinati. La madre del Padrone, Dremornet, con i capelli bianchi e gli occhi scuri, sedeva maestosamente in una poltrona di velluto sotto il ritratto dell’antenato dal braccio deforme. Se gli ospiti non erano numerosi, si radunavano intorno a lei, lasciando libero l’altro camino per le conversazioni private; quando c’era molta gente, si formavano due gruppi, uno ad ogni estremità della sala. Quella sera, una cerchia tranquilla di donne e di giovani s’era raccolta intorno alla poltrona di velluto, mentre tre o quattro uomini anziani pontificavano con il Padrone davanti all’altro camino. Naturalmente, quella sera non c’erano forestieri, eccettuata Irene. Lei restò con il gruppo intorno alla madre del Padrone fino a quando lui si avvicinò, rivolgendo a entrambe un’occhiata che era un segnale. Era arrivato il Nobile Horn.

Dremornet raccolse la gonna e si alzò per ricevere il visitatore con una riverenza, poi le altre donne s’inchinarono. Il Nobile Horn era un uomo magro, grigio e impettito. Fece un breve inchino rigido. Neppure lo spettacolo di quella vecchia dama minuta e solenne che eseguiva una solenne riverenza spianò le rughe fredde del suo viso. La figlia, un passo dietro di lui, bionda e vestita di sete pallide, s’inchinò e sorrise pallidamente, poi passò oltre. La loro funzione, pensò Irene, era fare e ricevere inchini; erano figure rappresentative, titoli vuoti. Il padrone della città era quello che veniva chiamato Padrone, Dou Sark. Ma lì erano tipi all’antica, e seguivano le vecchie usanze, e quindi ritenevano necessario anche avere un nobile signore.

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